Pubblichiamo una riflessione per THEMA Magazine dell’architetto Gianni Lamedica sulle sue architetture di chiese.
LO SPAZIO SACRO NELLE ARCHITETTURE DI GIANNI LAMEDICA
Mi è difficile parlare delle mie opere, ma credo sia possibile riflettere sulle intenzioni che mi hanno fatto da guida alla progettazione.
La mia attenzione è stata rivolta da subito ai contenuti a cui il progetto avrebbe dovuto rispondere. Siamo nel primo periodo dopo la conclusione nel 1965 del Concilio vaticano II. La liturgia e il modo di costruire le nuove chiese sono state oggetto di studio e di indicazioni di profondo rinnovamento da parte dei Padri Conciliari. L’edificio chiesa non era più considerato la Casa di Dio in mezzo agli uomini, ma uno spazio che avrebbe dovuto accogliere l’assemblea dei fedeli che lì si sarebbe radunata per celebrare i Santi Misteri. Era come già evidente il concetto stesso di luogo-chiesa che stava cambiando. Non si trattava quindi, di progettare una chiesa moderna o in istile classico, ma di interpretare la riforma liturgica del Vaticano II. Questa riflessione ha capovolto i criteri della progettazione. L’attenzione era sì verso le nuove , ma soprattutto, alla ricerca della creazione di spazi che avrebbero dovuto favorire l’incontro di preghiera, la riflessione collettiva e personale, la partecipazione alle Sacre Cerimonie con la nuova liturgia. La forma, quindi, al servizio della funzione.
… Appena terminato il monastero delle Benedettine (1970), eretto sulle prime balze collinari vicinissime a Fano, una novizia prese solennemente i voti di monaca benedettina con una cerimonia alla presenza del Vescovo e di tutte le consorelle; era per me la prima azione liturgica che si è svolta in un mio spazio appena realizzato. Ricevetti, il giorno dopo, una sua nobilissima lettera in cui, fra l’altro, affermava “… nella sua chiesa ci si prega bene!” Non potevo desiderare di più. Ho creduto di avere assolto al mio compito: la bellezza è all’interno di questa sua affermazione.
Un altro significativo del mio modo di progettare è stato l’interesse per i caratteri dei luoghi. Erano gli anni in cui Norberg Schultz (1979), Kevin Lynch (1968), Giancarlo De Carlo ponevano l’accento sul paesaggio e si parlava di cultura del luogo: il Genius Loci è il termine che in quegli anni si è affermato. Ancora non era la forma ad interessarmi, o meglio mi interessava farla nascere da quella trama di realtà ambientale. Così sono nate le mie chiese.
In tutta semplicità, qualche foto e alcune didascalie possono giovare a questo mio racconto. Come esemplificazione più approfondita, accludo un mio articolo pubblicato recentemente sul quindicinale “Il Metauro” che racconta con compiutezza la mia chiesa progettata a Calmazzo di Fossombrone, assai prossima alla catena appenninica e alla Gola del Furlo con diga e lago artificiale sul fiume Candigliano, edificata al bivio fra la vecchia via Flaminia con la Statale che porta ad Urbino attraverso il paesaggio storicizzato dalle iconografie di Paolo Uccello, Piero della Francesca, Giovanni Santi, Raffaello, Pietro Vannucci (il Perugino), ecc.
Monastero delle Benedettine (1967)
È il bosco degli ulivi protagonista del luogo. Il monastero non si impone, ma si adatta al paesaggio non alterandone le sue caratteristiche. L’architettura trova i suoi riferimenti nella storia agraria del territorio pur introducendo segni e forme della cultura contemporanea.
“[…] Fulcro del monastero restano sempre la chiesa, il chiostro, le celle, e qui, pur nelle linee asciutte e stilizzate, lo spirito monastico ne è stato preservato […] un’oasi meravigliosa di spiritualità ed un raro esempio di funzionalità e di creatività architettonica” (Franco Bertolotti, Le Benedettine a Fano, Tecnostampa Loreto, 1985 pag. 17).
“[…] Anche nel monastero delle Benedettine di Fano Lamedica, usando il mattone, è riuscito con linguaggio austero e coerente a creare un organismo fedele alla tipologia tradizionale, ma fortemente innovativo nella dinamica spazialità” (Paolo Portoghesi in Architetture extraurbane della Provincia di Pesaro-Urbino, pag.13, Editrice Libreria del Sapere, Senigallia, 2014)
San Sebastiano a Bellocchi di Fano (1970)
L’edificio si propone con caratteristiche più riecheggianti un’opera pubblica di sicuro interesse sociale per la frazione industriale di Bellocchi. Erano gli anni in cui ci si interrogava su senso che avrebbe dovuto avere la progettazione di una nuova chiesa. È stata in questi decenni riferimento forte per quella comunità.
San Marco nel litorale di levante “Sassonia” a Fano (1971)
È una chiesa in zona storicamente di interesse turistico balneare. La struttura del severo paramento murario, rifiuta il dialogo con le anonime costruzioni circostanti pur integrandosi nel quartiere come edificio spirituale al servizio della comunità e degli ospiti anche stranieri in prevalenza tedeschi e di fede protestanti.
San Giuseppe a Sterpeti di Montefelcino (PU) (1972)
Questo impianto nasce dall’esigenza di costruire una nuova chiesa in una zona di nuova espansione lungo la via Flaminia, ma mancavano le risorse finanziarie per realizzarla perciò il parroco mi chiese un edificio che avrebbe dovuto essere necessariamente semplice, modesto, povero, se è possibile definirlo così, giacché non voleva che fosse più importante delle case dei suoi parrocchiani. Gli proposi allora una struttura industriale, un capannone! Tuttavia organizzato con disposizione claustrale con un’aula accogliente ricca di simboli della storia cristiana e che favorisse liturgie efficaci rispondenti ai nuovi dettami del Concilio Vaticano II.
Santa Maria Immacolata a Tavernelle di Serrugnarina (PU) 1978
La frazione, di recente insediamento, non aveva un luogo per la collettività, così gli spazi esterni alla costruzione quali il sagrato, l’accesso con rampa alla parte superiore, il sottorampa, memoria di un portico, la piccola piazza-abside rovesciata, si propongono alla civica collettività. È diventata in questi decenni icona del quartiere.
Santa Maria a Rosciano di Fano (1973 -1990)
La struttura sostituisce la vecchia chiesa tuttora esistente lungo la via Flaminia. Ha avuto diverse difficoltà nel corso della progettazione, tuttavia è sicuro riferimento per il giovane quartiere e svolge una buona attività pastorale.
Santa Maria del Carmine a Calmazzo di Fossombrone (1979 -1981)
La chiesa è situata a Calmazzo, al centro dell’ampia radura in contiguità con il piccolo borgo; si contrappone alle colline ed alle propaggini del vicino Appennino che sono, in realtà, le vere pareti della chiesa. La grande convessa parete inclinata rievoca e si contrappone alla diga del Furlo.
“La chiesa di Gianni Lamedica a Fossombrone del 1979 appartiene […] a quel filone di ricerca che utilizza il cemento armato come materia costruttiva capace di evocare valori spirituali, riuscendo ad accordare felicemente con il paesaggio circostante una immagine complessa in cui spazio interno e volumetria si plasmano vicendevolmente” (Paolo Portoghesi in Architetture extraurbane della Provincia di Pesaro-Urbino, pag.13, Editrice Libreria del Sapere, Senigallia, 2014).
Calmazzo mi è molto cara, perché con quest’opera ho potuto sperimentare nuove forme e la deformazione dello spazio architettonico. L’edificio non ha una facciata un prospetto principale, ma si presenta con un continuo susseguirsi di volumi pieni e vuoti che dialogano, anche in modo violento, con il paesaggio circostante. La chiesa è il centro dell’ampia radura, questo è sicuramente evidente, come le colline e le propaggini del vicino Appennino sono, in realtà, le pareti della chiesa. La grande convessa parete inclinata rievoca e si contrappone alla diga del Furlo. Credo sia stato questo il mio primo pensiero nello svolgersi della progettazione e penso sia stato questo atteggiamento che mi ha permesso di liberarmi da vecchi stereotipi e da una stanca contemporaneità, per inventare spazi prima non sperimentati, almeno da me. Mi riferisco alla percorribilità del volume esterno attraverso una sorta di sentiero la cui ispirazione va riferita ai percorsi collinari adiacenti la chiesa, quasi che il suo volume fosse un colle raggiungibile da un piccolo sentiero che dà accesso alla piazza sagrato, più somigliante, tuttavia, ad una gradinata ad anfiteatro, che favorisce le celebrazioni liturgiche all’aperto: interno ed esterno della chiesa hanno pari dignità.
Qualche tempo fa, tornando da una breve visita ad Urbino (breve ma significativa: erano state esposte due città ideali in uno splendido allestimento espositivo al Palazzo Ducale) mi è capitato di vedere, all’improvviso, un piccolo corteo-processione che risaliva il sentiero. Il sacerdote, in abiti liturgici mossi da un leggero vento, precedeva i fedeli verso il luogo del raduno, su, all’aperto, un vero spazio ecclesiale dove la piccola comunità si sarebbe riunita in preghiera sotto il tetto formato dal cielo, avendo come pareti le colline e le montagne assai prossime.
Mi ha commosso quella visione fugacissima, ma profonda! Subito ho percepito che il mio edificio non era più mio, ma ormai apparteneva alla comunità per la quale io, tuttavia, l’avevo progettato. Quel giorno capii che la mia invenzione architettonica, era diventata uso e luogo di ritualità per quella gente del posto … e fui felice! Il mio progetto era ormai radicato nel territorio e nella piccola comunità. Il mio sforzo progettuale aveva raggiunto il suo scopo.
Il paesaggio tutto intorno è rimasto nel corso dei secoli intatto o quasi. È lo stesso che riconosciamo nelle tele dei grandi pittori del Rinascimento. È proprio il paesaggio che abbiamo tanto ammirato da farlo diventare nostro archetipo interiore, quando era sfondo nelle grandi pale d’altare delle tante Madonne con Bambino e Santi, dipinte per la devozione e per la preghiera dei fedeli, poi diventate protagoniste della storia dell’arte.
Nella mia Chiesa questo sfondo non è raccontato da tele appese alle pareti interne, ma è proprio l’ambiente circostante l’edificio, è il paesaggio che diventa “tela” e racchiude l’edificio. È come se l’esterno forse l’interno. La processione che risale il sentiero architettonico diventa icona, memoria, di tutte le immagini del passato e, al tempo stesso, uso e ritualità feconda nel nostro tempo.
Santa Famiglia a Fano (1987)
«La grande sorpresa!» Così si è espresso Alfred Roth in una visita a Fano nel 1994. La frase si riferisce al fatto che, dall’esterno, non è intuibile l’interno, articolato, architettonicamente e strutturalmente «coraggioso».
“Gianni Lamedica ha scelto di accogliere la suggestione dell’architettura steineriana per definire uno spazio raccolto e capace di ricollegarsi alla tradizione della carpenteria navale della città”. “[…] il basso corpo angolato che avanza come una prora sullo spigolo sostenendo il concerto di campane nel triangolo aperto dà l’inequivocabile annuncio: questa è la chiesa, la casa della comunità. E su di esso, appropriatamente è stato innalzato, come l’albero di un veliero, un palo (magistralmente tratto dal legno avanzato della costruzione delle strutture interne) che ostenta la Croce, la cui forza espressiva è tanto maggiore, quanto più evidente la sua schietta semplicità” (Leonardo Servadio, “La chiglia, l’albero, il veliero”, in Chiesa Oggi, 13/1995 pag. 44)
“La chiesa progettata dall’archetto Lamedica mostra una bella immagine dei principi costruttivi che derivano dalla concezione antroposofica della creatività [in precedenza l’autore fa espresso riferimento a Rudolph Steiner]. La vivacità del paesaggio della copertura, costruita in legno, sopra lo spazio liturgico corrisponde alla vivacità del popolo dei credenti che raccoglie verso il centro liturgico” (Justus Dahinden in Chiesa Oggi, 13/1995).
Tre opere non realizzate meritano la citazione per la ricchezza della progettazione.
Il Monastero delle Carmelitane sulla collina di San Biagio a Fano (struttura underground); una chiesa parrocchiale a Torrette di Fano e la Chiesa del monastero delle Serve di Maria sul Colle San Bartolo a Pesaro.
Tutto il materiale fotografico è per gentile concessione dell’architetto Gianni Lamedica