Autonomia e norma nel progetto architettonico e liturgico

La cronaca

Duplice sessione di lavoro: quella mattutina, dedicata “all’assetto dell’assemblea” e ai “problemi di adeguamento liturgico”; quella meridiana, dedicata “all’assemblea celebrante e il suo contenitore”. Delle due più felice la prima, forse per la freschezza dei relatori, messi a dura prova da una pesante trasferta. In realtà il tema sotteso è il rapporto fra la libertà del progettista (auto-nomìa, nel senso proprio di ciò che si nomina da sé) e norme liturgiche, come correttamente dettato dal titolo della sessione di lavoro.

Fatte le presentazioni e i saluti di rito – la dottoressa Manenti anticipa i prossimi impegni dell’Osservatorio e di futuri Osservatorî di respiro internazionale- mons. Cavina, provicario generale della Diocesi di Bologna, reca gli auspici del Vescovo. Don Luigi Girardi  introduce la sessione di lavoro, leggendo una relazione dal titolo Progetto architettonico e canone liturgico alla luce del CVII, titolo che più comodamente possiamo ridurre a norma vs. libertà, dove le libertà paiono essere di due ordini: dei liturgisti e dei progettisti (la qual cosa, per esperienza personale, crea non poco imbarazzo). Siamo dunque nell’ambito dei “mezzi” per la realizzazione del progetto architettonico.

Si palesa subito l’ipotesi che rimarrà sottesa all’intera giornata di lavoro: che di “quali siano le norme” non è facile aver chiarezza né appare chiaro chi dovrebbe farle applicare (rispettare?). Si propone quindi -non senza qualche dubbio di chi scrive (vedi al paragrafo seguente), che al posto di “norma” si legga “canone” dichiarando esplicitamente l’autonomia del progetto a fronte della “canonicità” liturgica (quale che essa sia) alla luce di SC;  si ribadisce infine -per chi ancora non lo sapesse- che la Chiesa non ha uno stile artistico (a differenza della musica il cui canone sarebbe il gregoriano) e che questo andrebbe a favore della libertà espressiva dell’architetto (il condizionale è mio). E ancora si rammenta come la Chiesa delle origini non avesse un modello normativo di tipo architettonico bensì un modello di tipo assembleare che in architettura si manifestava indifferentemente per adeguamento di spazi esistenti, fossero essi delle semplici domus o delle basiliche.

Quali sono dunque gli elementi che fanno emergere una norma? Se ne suggeriscono tre:

– il gesto liturgico della comunità riunita in assemblea che genera esigenze;

– il contesto ecclesiologico, la visione complessiva dell’essere Chiesa, dalla Bibbia al sensus fidei dei fedeli;

– il contesto socio-culturale e il dialogo con le varie culture, in base ai quali il gesto liturgico si elabora in un dato contesto o (non è l’istésso) in un contesto dato; in una parola: l’inculturazione.

Il gesto liturgico, pertanto, è il canone (norma, ribadisco io) fondamentale e fondante il gesto architettonico; e le norme suddette, più che dogmatiche, si rivelano essere di tipo pastorale, come si evince chiaramente dalle diverse e possibili posizioni della sede, ancorché del tabernacolo e del fonte, nella prassi quotidiana. Dalle tre norme di cui sopra parrebbe derivare una condotta progettuale improntata all’ottenimento dello <spazio felice> (Le Corbusier avrebbe detto <spazio indicibile>), incarnazione ed oggettivazione delle norme medesime che siano dunque “elastiche”, né creino assolutizzazioni disagevoli. “Le norme sono esposte a variabili” riafferma don Luigi e “l’innovazione di per sé non è proibita, purché consona al gesto liturgico.”

La giornata procede quindi con le relazioni delle colleghe/colleghi Zito, Grisi, Di Gennaro e di don Severino Dianich (la mattina); e di Marchesi, Longhi, Manenti, Marcuccetti e Valdinoci (il pomeriggio). Segue serio e vivace dibattito.

Le  tematiche alla luce di una mia personale ipotesi.

Da quanto detto in cronaca e da quanto emerso dalle notevoli relazioni di Della Longa e di Marchesi, pare che il problema, ammesso che un problema esista -a latere da quello lessicale- sia che il Tipo (il maiuscolo è mio) non è esente da Norma. Aiuta il prosieguo del dibattito Longhi, che segnala come “la specializzazione sia nemica della durata” facendo eco alla relazione della Zito che segnalava lo stesso problema nei termini di definizione di uno standard tipologico nelle chiese realizzate durante l’episcopato del Cardinale Pellegrino (1902-1986) che fu arcivescovo di Torino dal 1965 al 1977; lasciando inevasa la domanda: “a quali norme o standard qualsivoglia, fanno riferimento tali chiese?”

Certamente le chiese di Campagnoli e Colucci (le più citate), riferiscono al modello della chiesa quadrata (non ad quadratum, che appartiene ad altra congerie culturale), che di per sé -purtroppo- non è tipo, giacché il tipo sarebbe quello “a pianta centrale” – quanto piuttosto archetipo e che pertanto riferisce al Quaternario in termini di Forma Formante ed alla Gerusalemme Celeste in termini escatologici.

Da cui deriva il vero tema della giornata: il tipo è normativo? E in che modo interagiscono i “dettami” del tipo e le relative “istruzioni” liturgiche? Premesso che personalmente ritengo vera la definizione che del tipo dà l’Arìs secondo il quale “il tipo è ciò che permane nella differenza” e che il tipo a sua volta non è modello, giacché dal modello si derivano esemplari identici, propongo l’identità di tipo e norma a fronte della identità di modello e di canone (vedi sopra e comprendi le improprietà di liguaggio). Il tipo, in quanto generatore di singolarità sempre diverse ma in fondo accomunate nell’idea che le governa, è -parimenti alla norma liturgica- variabile a seconda delle circostanze che governano l’azione, siano esse culturali che sociali. Sono ambedue governate dalla consuetudine, piuttosto che dal canone che -di contro- è cogènte, giacché secondo recita Treccani,  è termine “che indicò originariamente il regolo usato dagli artigiani” e pertanto afferente alla logica della misura, che non è proporzione. A tale politica progettuale -che semplicemente suggerisce ma non impone- sono ispirate le note pastorali destinate ai progettisti.

In chiusura: dubbi linguistici, de-liri ed altre amenità.

Si rispolverino i manuali giacché mai desueti: si rileggano Rossi, Quaroni e Caniggia, se non addirittura De Quincy; né si dimentichi, per ciò che concerne le tematiche relative allo spazio per la liturgia le belle lezioni di don Giuseppe Busani.

Si faccia luce fra le differenze sottili -neanche troppo- fra standard, tipo e modello da un lato; fra norma, dogma e canone dall’altro. Si smetta infine di spacciare per farina del proprio sacco (del liturgista di turno?) quanto appartiene invece ad altri. E mi spiego citando un maestro *: “la Cabala ebraica presenta il processo della creazione come una serie di emanazioni dall’IO SONO del grande Volto. Il Vecchio dei Vecchi, lo Sconosciuto degli Sconosciuti, ha una Forma e tuttavia non ha forma. Ha una Forma nella quale è preservato l’Universo e tuttavia non ha forma perché non può essere circoscritto. (…) Questo <Vecchio dei Vecchi> è rappresentato come un volto di profilo perché il lato nascosto non può essere mai conosciuto. È chiamato <Il Grande Viso>, Makroprosopos e dalla sua barba bianca ha origine  il mondo intero. (… ) La barba bianca scende sopra un’altra testa, <Il Piccolo Volto> Mikroprosopos, rappresentato di fronte e con una barba nera. (…) Il Piccolo Volto è chiamato <DIO> e il Grande Volto, <IO SONO>. Makroprosopos è l’Increato che Non Crea e Mikroprosopos è l’Increato Che Crea: rispettivamente il silenzio e la sillaba AUM, il non manifesto e la presenza immanente nel ciclo cosmogonico.”  (* cfr. Campbell J., L’eroe dai mille volti, Torino 2012)

A margine di un incontro presso il Centro Studi Dies Domini, Fondazione card. Giacomo Lercaro,

in collaborazione con la Fondazione Frate Sole

Bologna 11 ottobre 2013

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