Severino Dianich
Se i creatori di un’opera così brillante di bellezza, per la quale generazioni di artisti hanno faticano lungo tre secoli, dal 1300 al 1800, ritornassero oggi nel Duomo di Siena, resterebbero mortificati al vedere il pavimento ricoperto da lastre di volgare masonite, nascosto agli occhi dei frequentatori della cattedrale. Si rianimerebbero d’orgoglio, però, al sentire che, dalla fine di giugno ad ottobre, per poter entrare in Duomo è necessario prenotarsi per tempo, perché si prevede che vi siano folle, da tutte le parti del mondo, che verranno a vedere il celebre pavimento, finalmente scoperto e totalmente visibile. «In lucem veniet», verrà alla luce, come proclama del Messia venturo una delle sibille che vi sono rappresentate. Un evento singolare, come quando nel passato, un po’ dovunque, si usava “scoprire”, con grande solennità, fra preghiere, fiori e incensi, l’immagine della Madonna patrona di una città.
Molti verranno a vedere l’opera per motivi di studio, ciascuno con le sue specifiche competenze, altri solo per il gusto di ammirare tanta bellezza. A tutti, però, si potrebbe suggerire di non dimenticare che tanto ingegno e tanta fatica vi si sono spesi, per fare di quel luogo una chiesa cattedrale, luogo altissimo della contemplazione di Dio e delle solenni liturgie della comunità cristiana. L’intento e il gusto di creare bellezza da un lato e, dall’altro, l’intento di offrire ispirazione per la preghiera e le celebrazioni della gloria di Dio, in una società compatta nell’unica fede cristiana, com’era quella precedente alle nostre ultime generazioni, facevano un tutt’uno. Disgiungere le due componenti che hanno motivato e animato l’opera significherebbe sminuirne gravemente il significato. Vi si aggiunga pure la volontà di esaltare la propria città, che appare evidente in tutta l’Italia dei comuni, quando si amava ostentare nelle cattedrali anche la grandezza della propria storia e della propria potenza.
Al visitatore converrà, prima di tutto, sostare all’esterno, sul pavimento antistante, per poter entrare in Duomo con i sentimenti e le attese della gente comune di Siena che lo frequentavano, e lo frequentano tuttoggi, per celebrarvi la loro fede. Le immagini intagliate nei marmi del sagrato ammoniscono chi entra ad assumere un atteggiamento di umiltà. Ai fianchi della silhouette di un tempio si vede, da un lato, la figura di un uomo orgoglioso, che pare vantarsi davanti a Dio, mostrando a dito quello che sta dall’altro lato, un personaggio dall’atteggiamento dimesso e penitente, che si riconosce peccatore. E’ Gesù che aveva descritto, con tratti sarcastici, questa scena, per denunciare coloro «che hanno l’intima presunzione di essere giusti e disprezzano gli altri». Chi ha letto il vangelo di Luca, se lo ricorderà (capitolo 18, versetti 9-14). Si entra in chiesa solo con l’umiltà e l’audacia della fede nel perdono di Dio.
Se, appena entrati nella cattedrale di Siena, si abbraccia con uno sguardo tutto l’ampio spazio nel quale ci si trova, si avrà l’impressione di essere effettivamente nel luogo del “totalmente Altro”, come usano dire i teologi, quando parlano di Dio. Sembrerà di essere entrati come in un grande scrigno prezioso, splendente, come fosse tutto decorato di madreperle. Dall’alto delle volte delle sue crociere si scende, con leggerezza, lungo i pur possenti pilastri compositi che le sorreggono, fino a raggiungere il suolo, su cui si stanno poggiando i piedi, nell’assoluta continuita della vivace decorazione, che non lascia scoperto e nudo neanche un piccolo tratto del pavimento, degli elementi portanti e delle pareti. Un caso singolarissimo di una perfetta armonia fra la composizione spaziale di un’architettura e la sua decorazione.
Uno spazio del “totalmente Altro”, eppure ben saldo su questa terra e immerso nella storia degli uomini. Osservando il pavimento, ci si stupirà che non ci venga incontro alcun segno del Divino, non l’immagine del Cristo, o della Madonna, o di qualche angelo o santo della tradizione cristiana. Ma anche se cercassimo qualcosa di simile guardando in avanti, prima di giungere alla crociera, non ne incontreremmo alcuna traccia. Al primo passo, invece, ci si imbatte nella figura di Hermes Trismegiste, il mitico mago che riassumeva in sé tutta la cultura pagana antica. Il complesso iconografico che abbiamo davanti è, infatti, la testimonianza di una fede che ha conosciuto la venuta di Cristo in un particolare momento della storia e crede nella sua risurrezione, ma allo stesso tempo crede che da lui è ispirata la sapienza umana di tutti i tempi e di tutte le diverse culture. Così, procedendo, ci si sente immersi nella dimensione universale del cosmo, in una straordinaria ampiezza di memorie di tempi e di culture diverse.
Il cammino è accompagnato, a destra e a sinistra, dalle sibille, le profetesse antiche che, ignare, avevano preannunciato, secondo una lunga tradizione, la venuta del Cristo. Siena, però, immediatamente ci vuol rendere consapevoli che ci troviamo in una città eccelsa, non meno grande di Roma. Al centro di una rosa di tondi con le figure delle grandi città vicine, che le fanno corona, da Roma stessa a Pisa a Perugia, appare la celebre lupa che allatta i gemelli. Qui, però, non sono Remo e Romolo, ma Seno e Aschio, i figli di Remo che, fuggiti dalle ire di Romolo vincitore, giunti nella regione, hanno fondato Siena. Ci viene attestata, nella tarsia di un rosone con al centro l’aquila imperiale, la sua appartenenza all’impero romano, non più a quello antico, ma al Sacro romano impero. Sintesi del cammino percorso, quasi a preparare l’ingresso nel mistero della salvezza, sarà l’Allegoria del Monte della Sapienza, la quale elargisce premi, a Socrate, il padre della filosofia, la palma della vittoria e a Cratete il cinico, un libro al posto dei gioielli che egli sta buttando via con decisione.
Nel grande esagono sottostante alla cupola, in fine, appaiono, al centro le storie di Elia, il grande combattente per Dio, e di Mosè, il liberatore dalla schiavitù, mentre lo spazio restante, fino ai transetti, esibisce altre scene bibliche ed episodi della storia della città. Così, attraversata la storia dell’antico Israele e accompagnati dalle memorie della città, si raggiunge il cuore della fede cristiana, il Cristo. Sollevando lo sguardo dal pavimento verso l’abside che chiude il percorso, è dato di contemplarlo, in forme diverse, nel complesso bronzeo che sovrasta l’altare. In primo piano lo si vede crocifsso e poi, al culmine della composizione, risorto, con la croce in mano. Ha i piedi leggiadramente posati sul bordo di un calice, posto lì a raccogliere il sangue che egli ha versato per amore dell’umanità. Nel tempietto circolare, dominante al centro, e sorretto dal gioco dei puttini angelici, non lo si vede nella bellezza del suo corpo umano, ma il credente lo crede presente, e lo adora, nel pane consacrato nella Messa, che in quel prezioso tabernacolo bronzeo viene costodito.
Così si conclude il cammino della meraviglia e dell’ammirazione. Non è pensabile, naturalmente, che un insieme visivo così vasto e complesso, nel quale di secolo in secolo si aggiungevano memorie, immagini e storie così diverse fra di loro, sia stato realizzato a partire da un preciso programma iconografico, pensato nei suoi dettagli da una committenza dotta. Ma è che, pur cambiando i tempi, gli interessi e le forme espressive, tutto germogliava dall’alveo di una visione unitaria, quella cristiana, del mondo e del suo destino.
le foto per gentile concessione Opera di Siena
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