L’architetto Emil Steffann (nato a Bethel, presso Bielefeld in Vestfalia il 30 gennaio 1899, morto a Bad Godesberg, Renania, il 23 luglio 1968) rappresenta, nell’architettura di chiese del ‘900, la ricerca paziente di un linguaggio di semplice, bensì acuta vibrazione e la sua traduzione in spazi finiti, materici, intimamente sottratti a ogni tipo d’invadenza terrena e, in egual misura, apertamente disponibili a connotare il territorio. L’atelier – cui concorrono valenti progettisti tra i quali Hülsmann, Rosiny e Bienefeld – ha costruito, nel breve periodo che va dal 1950 al 1968, lo straordinario numero di trentanove edifici per il culto cattolico: visitandoli, in ognuno di essi si ritrova la presenza viva di Steffann. La sua persona ci si fa incontro: nei racconti dei testimoni, nei muri che circoscrivono lo spazio, nella tangibile icona dei suoi disegni e dei suoi ritratti; su tutto, nella profonda ispirazione spirituale, cioè in quell’oggettivo amore per il vero che connatura il suo progetto di chiesa. Di fatto, per la storiografia architettonica e la cultura del progetto Steffann è uno sconosciuto; la critica si è piuttosto ritratta che esercitata sulla sua opera, puntiformi sono state le occasioni di discussione, debole ne è la diffusione fuori dei confini tedeschi; nella stessa Germania pochi sono gli autori i quali hanno approfondito il suo ruolo culturale e il tema delle sue chiese. Con tutta probabilità questo è accaduto, e ancora accade, poiché Emil Steffann è un uomo spirituale: per lui l’uomo è infatti tale per via dello spirito che penetra e risuona in lui; non un compimento formale perciò, piuttosto la “permeabilità” indica il significato proprio della parola. “Lo spirito rende persona”. Nelle costruzioni di Steffann, l’ispirazione alla matrice spirituale della persona scioglie l’espressività dell’architettura in combinazioni plastiche e spaziali al servizio della preghiera: ciò rimarrebbe incomprensibile a uno sguardo distolto dal nesso con la sua semplice rappresentazione di vita. Annota Steffann nel 1947: “Aspettiamo la forma vincolante che si pone davanti alla nostra anima, il punto di partenza per il nuovo inizio…L’inizio parte dall’interno”. Il tempo dell’attesa e della riflessione interiore è presupposto dell’attività costruttiva rivolta all’esterno, ne delimita la realizzabilità, non solo come percezione sensibile, altrettanto quale azione formante chiara e riproducibile che si/ci avvicina agli altri. “Costruire – ha ancora scritto nel 1932 – è soltanto eseguire visibilmente delle decisioni prese precedentemente nella vita spirituale”. Così le chiese di Steffann sono testimoni di una verità situata prima dell’atto creativo, per cui il soggetto-progettista non si serve a propria discrezione dell’opera, piuttosto offre l’espressione oggettiva di una realtà trascendente tale da poter essere riconosciuta e condivisa dagli altri, in un esperire che è insieme finito e intemporale. Le immagini, intese come elementi primi, archetipici del pensiero immaginativo, compaiono, allo stesso modo che nell’azione liturgica, come segni di purificazione, riscatto e illuminazione. Sono figure elementari dell’esistenza umana posta in mediazione con il divino.
“L’azione è tutto, la forma è nulla”. Il costruire evolve così dall’ambito strumentale per divenire forma dell’esistenza; la valenza significativa di un edificio non è un sovrappiù a esso estraneo, bensì ne è l’intima essenza costituente; davvero si concretizza in Steffann il motto heideggeriano per cui solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire. Le sue chiese offrono un riparo possibile alla comunità credente per l’adeguatezza e l’autenticità della costruzione con riferimento al senso profondo dell’esperienza religiosa e all’imperfezione e provvisorietà dell’esistenza umana, portano l’abitare alla sua essenza.
“Le nostre cattedrali – osserva Steffann – erano i custodi della vita colorata che si svolgeva ai loro piedi; oggi hanno perso in larga misura questo compito e sono diventati dominanti urbanistiche in senso estetico… La nostra immaginazione viene così deviata dalla realtà e indirizzata verso uno sguardo estetizzante e non capiamo per quale motivo la maggior parte delle opere urbane ci appare inautentica, una rappresentazione non impegnativa di immagini”. Può sembrare un paradosso, ma recuperare, invece, la visione aperta e non conformista dello spazio liturgico si presenta come possibilità, per l’architetto, “di disimparare l’architettura per soddisfare invece delle esigenze vere, in un minuzioso e accurato lavoro e farle diventare nel tempo un insieme vivente!”
Questi edifici, come altri di mirabili appassionati e poco celebrati progettisti del XX secolo, sono vivi perché colmi di vita cristiana ed è necessario affermare come sia giunta l’ora di coglierne compiutamente l’alta qualità e l’esigenza architettonica atemporale, se non intendiamo assistere impotenti alla distruzione di un’intera epoca costruttiva.
Tino Grisi
Photos archivio familiare@ Tino Grisi