Una lectio magistralis, che di magistralis ha avuto tutto: “La Deposizione del Caravaggio. La Storia dell’Arte incontra il Restauro Scientifico”. Il 30 ottobre il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tre ha inaugurato così il master “Metodi, Materiali e Tecnologie per i Beni Culturali (Methods, Materials and Technologies for Cultural Heritages)”.
Con naturalezza e semplicità, SE il Vescovo Mons. Carlos Moreira de Pinho Azevedo, Delegato del Pontificio Consiglio della Cultura, ha preso il Vangelo di Marco e ha iniziato a leggere. Di quel Giuseppe di Arimatea o Nicodemo secondo Giovanni che offrì un sepolcro a Gesù di Nazaret. Perché si può studiare la storia dell’arte per decenni, ma senza il Vangelo, Caravaggio non si comprende. Nella sua scapestrataggine, il Merisi la conosceva bene la Parola di Dio, e ne condivideva la lettura filippina. Fin da subito, attorno alla Vallicella, la chiesa-casa dei padri, si raccolgono le menti intellettuali dell’epoca. San Filippo stesso aveva sempre avuto un occhio teso ai maestri delle arti. Quando dipinge la Deposizione per i padri oratoriani, Caravaggio ne sposa appieno le preferenze iconografiche. Le braccia alzate di Maria di Cleofa hanno reminiscenze paleocristiane. Chi dopo cinquecento anni si appresta ancora alla fatica del cammino delle sette chiese, sa quanto San Filippo fosse devoto alle prime basiliche. Nel quadro è presente la stessa notte del pellegrinaggio. E’ buio, s’intravede la porta del sepolcro sullo sfondo. Un arbusto, forse simbolo della Vita, quella che dalla morte ricomincia, comincia a nascere sotto la lastra. Nicodemo c’invita ad osservare la scena. Il suo sguardo è rivolto a noi infatti. Vi è Giovanni che sostiene il corpo del Cristo. Cerca il costato aperto, la via verso il Cuore. La mano della Madonna, tesa verso il figlio, è come benedicente sul capo di Giovanni, affidatole sotto la Croce. La tensione materna è ponte tra i due. E’ la madre del figlio di Dio che diviene madre della Chiesa. La Maddalena orante è sempre la sua Lena, quel volto controverso che ritroviamo nella Madonna dei pellegrini e altrove. Il corpo è già pervaso dalla morte. La mano inizia a prendere un colore nero sulle dita. Paolucci rivede nel Cristo di Caravaggio quello della Pietà. Il suo illustre omonimo, allora ventiquattrenne, lo fece uscire da un blocco di marmo. Il Merisi lo fa emergere dalle tenebre. Quando la luce incontra l’ombra, è lì che la realtà diviene percettibile. E’ con la Luce, che si rivela la Verità.
Ma chi è il protagonista di quest’opera? Il nome, deposizione, ci riporta ad un azione. La luce ci indica il Cristo. Ma un’opera va letta nella sua collocazione. Spostiamola idealmente quindi dalla Pinacoteca Vaticana. Riportiamola alla natia Chiesa Nuova. Sull’altare della cappella della Pietà. Navata destra, là dove ora troneggia un’indegna copia dell’opera. Chi colpisce lo spettatore, chi prepotente si presenta all’altezza dei suoi occhi, è la lastra. Di pietra, forse di marmo. “la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo” (Salmo 118). E’ la pietra che diviene la chiave dell’arco. La porta per la Resurrezione.
“Il bello della storia dell’arte è che è qualcosa di squisitamente relativo. Essa infatti è in relazione con qualsiasi cosa”. Parole di Paolucci, confermate poi dai professori Santamaria e Morresi. L’eventuale scetticismo nei confronti della poetica della riflettografia è comprensibile. L’analisi colorimetrica poi. Eppure la grandezza di Caravaggio va oltre l’occhio umano. Gli strumenti ce ne rivelano nuovi aspetti. Il suo alleato più grande si scopre essere la biacca, tanto disprezzata dall’amato Buonarotti. L’uso che ne fa è magistrale, quanto quello di un materiale ben più nobile come il lapislazzulo. Il velo della Madonna ne è pieno. La luce non è rivelatrice solo artisticamente, ma anche tecnicamente. Evita infatti che vengano prelevati dei campioni, e fa sì che tramite lei si possano compiere tutte le indagini del caso. La riflettanza. Grazie a lei si nota l’inesistenza, nota, di un disegno preparatorio. Solo venti segni. Sono più una delimitazione dello spazio. Solo venti segni. Si scoprono otto dita tra le mani alzate di Maria di Cleofa. Ma più di tutto, si ha la consapevolezza di trovarsi davanti ad un genio. Cinque pennellate per le dita, una per il malleolo. Sei gesti e ha creato un piede. La maestria.
Due ore di estasi tra le luci di un’ottobrata romana. Di quelle che anche il Merisi deve aver goduto, mentre dal Pantheon si avviava all’Oratorio dei Filippini. A 500 anni dalla morte del Santo, di Pippo buono, la sua opera festeggia rilucente per il nuovo restauro. La sua arte che, sparsa per le vie di Roma, allieta pellegrini, credenti e turisti. Illustre attore nella bellezza della città eterna.