L’Africa, la Città, la Chiesa.

 Il n. 3 di Thema (www.thema.es rivista dei beni culturali e architettonici per il culto), attualmente in preparazione, è dedicato ai “paesaggi sacralizzati”. Alcune presenze significative, infatti, danno un tono sacrale a vari ambienti di valore paesistico: è questo il caso di molti monasteri, di campanili che svettano sulle campagne, di sagrati che si aprono nel contesto urbano… Nell’annunciare l’uscita di questo prossimo numero della rivista, presentiamo uno dei servizi che vi saranno pubblicati e che dà un’idea dell’importanza delle chiese nei panorami africani

Non solo le città europee si sono sviluppate attorno alle loro chiese in epoca medievale. Anche oggi lo spazio sacralizzato diviene centro promanatore di nuove realtà urbane. A questo fenomeno si assiste in diverse parti del mondo, e tra queste in Africa. Ne ha parlato l’architetto Carlo Fumagalli al Seminario “Adeguamento liturgico e progetto d’architettura per la chiesa di oggi” che si è svolto a Loppiano il 28-29 gennaio 2011. Pubblichiamo qui il testo del suo intervento, gentilmente messoci  a disposizione dal prof. Giuseppe Arcidiacono dell’Università di Reggio Calabria, quale attiva testimonianza di una persona che si è impegnata per far sorgere nuovi insediamenti urbani nel “continente nero”, e di farlo alla luce della fede: anche come omaggio alla memoria di Carlo Fumagalli, architetto che si impegnava nel suo lavoro con la passione dell’artigiano creatore, scomparso nel maggio 2012.

“COSTRUIRE CHIESE IN AFRICA” di Carlo Fumagalli

Ho realizzato due chiese in Africa, una in Camerun, la chiesa St. Claire a Fontem, l’altra in Kenya, la cattedrale cattolica di Embu, St. Peter and Paul,. Per la verità, ce ne sarebbe una terza, pure questa in Kenya, che però non prendo in considerazione, perché è sostanzialmente una copia della prima, iniziata a mia insaputa. A mia insaputa fino a quando non hanno dovuto venirmi a chiedere copia di alcuni disegni che erano andati perduti. In Africa, e tra i missionari,  tutto è possibile.

Chiese progettate e costruite in tempi e in paesi diversi dell’Africa, tappe di un unico percorso, che parte dalla ricerca e dal rispetto di espressioni architettoniche locali, per inserirsi poi in quel processo di inculturazione avviato successivamente dalla Chiesa per coniugare il messaggio evangelico con la tradizione.

La chiesa di Fontem risale alla fine degli anni sessanta. Attraverso un primo contato con la tradizione, il progetto cerca di recuperare alcuni contenuti e alcune forme delle costruzioni locali.

 La cattedrale di Embu, costruita circa vent’anni dopo, sviluppa invece il problema dell’inculturazione attraverso una ricerca più approfondita della tradizione antica per verificare se vi fossero in essa elementi conciliabili col cristianesimo, da riproporre attraverso l’architettura.

Caratteristica comune a tutt’ e tre le chiese, la realizzazione eseguita senza l’apporto di imprese di costruzioni, facendo lavorare la gente del posto, col preciso intento di coinvolgere nei lavori la popolazione stessa.

 

FONTEM

Sulla chiesa realizzata a Fontem non mi soffermo più di tanto per dare maggiore spazio alla cattedrale di Embu.

Fontem era allora uno sperduto villaggio nel cuore della foresta tropicale, che nel giro di pochi decenni si è sviluppato fino a diventare una vera città grazie al Movimento dei Focolari, che, giunto là su invito del Vescovo locale dietro richiesta dei Bangwa, la tribù che abita quella zona, si impegnò dapprima nella cura dei tanti ammalati, soprattutto bambini – la  mortalità infantile raggiungeva allora circa l’ottanta, novanta percento delle nascite, rischiando di portare all’estinzione la tribù stessa – quindi avviò varie altre attività di lavoro e di formazione, tanto che furono gli stessi Bangwa, molti dei quali nel frattempo si erano convertiti al cristianesimo, a volere una loro chiesa.

Fin dal mio primo viaggio non mi fu difficile capire in quale contesto mi venivo a trovare; si trattava di un delicato intreccio di rapporti che si era creato tra focolarini e Bangwa ed era chiaro che anch’io avrei dovuto inserirmi in quella dinamica di rapporti. La costruzione della chiesa era infatti soltanto un particolare di un percorso a dimensioni molto più grandi.

L’idea base del progetto è quella della capanna chiesa. Mi sembrava la soluzione migliore per inserire bene questa costruzione in un ambiente fatto, a quel tempo, di poche capanne sparse qua e là, completamente privo di una realtà urbana, che si potesse definire tale . La pianta è a forma ottagonale, la copertura si sviluppa a tre balze sovrapposte, la più bassa si modifica in corrispondenza dell’ingresso principale, quella più alta in posizione diametralmente opposta dando forma a una cuspide. Viene così sottolineato l’asse ingresso-presbiterio.

Qualcuno vide nel tetto a tre falde una concezione “unitaria e trinitaria”: all’interno dice “uno”, all’esterno dice “tre”. I Bangwa vi lessero invece un altro significato: se le capanne della gente comune hanno un solo tetto e quelle dei capi dei villaggi un duplice tetto sovrapposto, probabilmente realizzato così per favorire il ricircolo dell’aria, era giusto che la capanna del Grande Capo ne avesse tre.

I lavori furono eseguiti dai locali sotto la direzione di un focolarino geometra e di un altro falegname. Nelle mie brevi permanenze a Fontem sperimentai anch’io cosa significhi lavorare con gente tanto lontana per razza e cultura, in situazioni ben diverse dalla nostra. Racconto solo un episodio. Un giorno dissi “Domani possiamo cominciare a montare le capriate”, ma negli occhi, coi quali mi sentii guardato, lessi senza fatica che la gru, da quelle parti, non era ancora stata inventata. Bisognava inventarla.

Terminati i lavori, consacrata la chiesa, restava in me una grande voglia di ripetere questa esperienza, o meglio di continuarla, soprattutto di conoscere più a fondo un popolo che forse non avevo mai considerato, ma che invece avevo cominciato a scoprirne una profonda, velata ricchezza. Quel mondo dove le cose più impensate diventano la normalità quotidiana, dove tutto sembra scontato anche se non lo è, mi aveva affascinato.

Ma come sarebbe stato possibile?

 

CATTEDRALE DI EMBU

L’occasione mi si presentò qualche anno dopo quando il Vescovo della Diocesi di Embu, in Kenya, una giovane diocesi da poco costituita, aveva pensato di rivolgersi a me per il progetto della cattedrale, dopo avere visto la copia della chiesa di Fontem realizzata in Kenya.

 

Il progetto

Il progetto prende spunto da due realtà fondamentali della tradizione locale: il monte Kenya e l’albero mugumu.

Il monte Kenya, nei tempi antichi era considerato la dimora terrena del dio Ngai;

Il mugumo; detto anche “albero di Dio” o “albero rituale”, era l’albero sotto il quale si svolgevano i riti sacri.

La configurazione del monte – un cono molto schiacciato a pendenza lieve,  e, al centro, le ripide rocce che puntano verso il cielo ricoperte di neve e di ghiaccio – ha suggerito la forma della cattedrale, che si presenta come un ampio tetto, lievemente inclinato, che ruota tutt’attorno a due alte torri. (foto 10)

Questo sviluppo orizzontale che si fa verticale al centro è in certo qual modo l’immagine della Chiesa, come ebbe a definirla Paolo Vl: “la chiesa ha due dimensioni, una gerarchica, che potrebbe dirsi verticale, di paternità; l’altra di fraternità, di comunità.” La grande copertura, che accoglie e unifica l’assemblea = la dimensione orizzontale, il rapporto uomo-uomo. Al centro, ai piedi delle torri, che svettano verso il cielo, come le due più alte cime del monte, il presbiterio = la dimensione verticale.

Più su, tra le torri, una grande vetrata, l’immagine di Maria . Più su ancora, siamo oramai all’esterno, una grande croce.

Per gli africani l’acqua è segno di vita, segno della provvidenza divina, benedizione.

Il monte Kenya è ricco d’acqua, che scende dai ghiacciai solcando le molte valli disposte a raggiera tutt’attorno alle cime; così è per la pioggia che cade sul tetto: viene versata in grandi vasche distribuite tutt’attorno e da qui incanalata in capienti cisterne, e usata poi soprattutto per irrigare i campi.

Il mogumo, è una pianta maestosa, imponente, alta 25/30 metri e più, dalla chioma larga, e dal caratteristico tronco, che si presenta come un insieme di rami incollati che si aprono verso l’alto, ricordando vagamente le strutture gotiche. Trova la sua interpretazione nei due grandi pilastri, posti nella parte anteriore del presbiterio, ciascuno composto da otto colonne aderenti l’una all’altra, che si aprono in alto in altrettanti rami atti a reggere le capriate della copertura. Inquadrano l’altare, il luogo dove oggi si svolge il sacrificio.

L’interno :

La chiesa (l’aula assembleare), quindi l’area presbiteriale e, in sequenza, la cappella feriale, posta a quota inferiore di circa un metro, per seguire l’andamento del terreno; sempre in asse e con accesso dalla cappella feriale stessa, la cripta per la tumulazione dei vescovi, al di sopra della cripta, il palco per manifestazioni all’aperto (religiose o altro).

La cripta non è caratteristica delle chiese africane, tuttavia, pensando che un tempo il re della tribù veniva sepolto ai piedi dell’albero sacro, sembra giusto che il “capo” della chiesa locale venga sepolto vicino al luogo del sacrificio nuovo. La sepoltura dei vescovi sotto la chiesa ricorda inoltre che gli apostoli, e i loro successori, sono le fondamenta della Chiesa.

Lateralmente, da un lato, al piano terra la sacrestia e gli uffici, al piano superiore la residenza; dall’altro lato il salone riunioni.

Alcuni momenti fondamentali della vita dell’uomo, che interessano il suo rapporto con Dio, hanno contribuito a definire l’impianto interno della chiesa (16 – planimetria 2):

la nascita = il battesimo (i catecumeni – da quelle parti sono molte le persone adulte che vengono battezzate – entrano in chiesa attraverso ingressi angusti e bui posti a lato dell’ingresso principale), l’iniziazione = la cresima (i cresimandi, maschi e femmine, percorrono separatamente i porticati esterni per riunirsi entrando in chiesa dove la comunità è già raccolta), il matrimonio (prima di entrare in chiesa la sposa viene unta in fronte con grasso di pecora, segno di fertilità), la morte (il feretro entra in chiesa ed esce da porte diverse).

Espressione dominante di ogni manifestazione a sfondo religioso è la danza. Attraverso la danza l’africano esprime i suoi sentimenti, la gioia, il dolore, il ringraziamento e anche la domanda. “un vero libro aperto per la meditazione”, così un africano l’ha definita.

La danza non poteva quindi non essere recuperata anche nelle celebrazioni cristiane.

La sola chiesa ha un’apertura di circa 70 metri e l’intero complesso copre circa 4,500 mq. (foto 17)

La preoccupazione di fare continuo riferimento a simboli e riti derivanti dalla tradizione, più ancora di voler reinterpretare nella forma, anche se con una certa  libertà, alcuni elementi naturali, potrebbe apparire eccessiva e destare qualche dubbio, s’è dimostrata invece indispensabile da quelle parti per aiutare la popolazione a capire meglio l’architettura stessa dell’edificio nel suo significato e nelle sue funzioni, a sentire la chiesa più loro perchè visibilmente radicata nella tradizione. Ne avremo conferma il giorno della presentazione del progetto e in altre occasioni durante il corso dei lavori.

La realizzazione

Quando stavo per iniziare il progetto della cattedrale, il Vescovo mi aveva espresso il desiderio di vedere coinvolta in quest’opera l’intera comunità “non mi importa – diceva – quanto tempo impiegheremo”. Voleva che quest’impresa fosse una buona occasione per la crescita di una comunità ancora fragile – la diocesi era stata costituita soltanto tre anni prima –. Per soddisfare questa sua esigenza, capii che non sarebbe bastato l’approfondimento della conoscenza della tradizione, ma avrei dovuto entrare in profondità nella vita della gente, nel loro quotidiano, cercare di capire le loro usanze, le loro esigenze, entrare in sintonia con loro e accettarli come sono. Oramai sapevo che gli africani, al di là di come possono apparire, sono gente di antiche tradizioni, dotate di una grandissima sensibilità; il fatto poi che non avessero una particolare preparazione tecnica perché fino allora non avevano avuto altra occasione se non quella di costruire capanne o poco più, aveva poca importanza, bisognava iniziare la costruzione da lì anche se il progetto era ambizioso.

Mi fu di grande aiuto un geometra italiano, Attilio Sartirani, un bergamasco, “uno di quelli duri come il granito”, che aveva una lunghissima esperienza africana per avere lavorato per molti anni in varie nazioni del continente, e che io avevo conosciuto qualche anno prima perché era stato lui a costruire la copia di Fontem, e ora s’era reso disponibile a scendere per lunghi periodi in Kenya per seguire i lavori per tutta la loro durata, durata lunga dal momento che i lavori sono iniziati negli anni novanta e la cattedrale è stata consacrata soltanto nel 2001, e che l’intero complesso non lo si può ancora considerare del tutto finito. Così affrontammo i lavori senza ricorrere ad imprese, ma assoldando gente locale, lavorando con loro, al loro fianco e come loro erano capaci.

In certo qual modo s’è dato al lavoro un’impostazione che ricalca le orme proposte dall’Esortazione Apostolica ECCLESIA IN AFRICA (1995) di S.S. Giovanni Paolo II°, là dove si sottolineano i legami profondi che intercorrono tra evangelizzazione e promozione umana. Un’impostazione di lavoro che s’è rivelata una delle caratteristiche più importanti di quest’opera, forse il successo più grande.

La prima sensibilizzazione è venuta dallo stesso Vescovo quando, davanti ad una folla accalcata in un campo di calcio, valutabile in circa 10/12.000 persone ha presentato il progetto. Era la festa della Diocesi. La presentazione, durata almeno mezz’ora dopo quattr’ore di cerimonia sotto un sole a perpendicolo, è stata seguita da tutti con molto interesse. Il Vescovo ha spiegando il recupero di alcuni valori tradizionali, come l’albero sacro e il monte Kenya, facendone una vera catechesi.  (foto 32-34)

Ma veniamo ai lavori.

Per alcuni, dove era possibile, abbiamo fatto intervenire intere comunità parrocchiali: Gli scavi, ad esempio.  (tre 35-37)

Vediamo poi qualche altro lavoro:

le murature in pietra.  Ecco come si presentano.

Quelle portanti sono realizzate a doppio paramento esterno che fa da cassero al  calcestruzzo armato gettato all’interno, gli altri a paramento semplice.

Da dove siamo partiti?

La pietra proviene da piccole cave nei dintorni, quindi portata in cantiere dove viene lavorata da scalpellini.

Quanto al calcestruzzo, viene confezionato in piccole betoniere e trasportato da una colonna di carriole.

Per poter  sfruttare al massimo le pietre cavate, che presentano ovviamente misure varie, loro stessi si sono inventati questo ricorrenza di tre filari a spessori diversi   (una foto)

Una volta poste in opera i giunti in malta vengono rifiniti con cementi liquido.

Le travature reticolari in legno della copertura.

Le  immagini dicono la complessità del tetto. Anche qui vediamo da dove siamo partiti:

il tronco d’albero giunge in cantiere appena squadrato. In cantiere viene realizzato un fosso largo circa 80 cm. e profondo circa due metri. Il tronco viene collocato lungo il fosso, sostenuto da qualche traversino , arrivano i due  tagliatori , uno dei quali scende nel fosso, l’altro invece sta sul tronco.

Successivamente mediante una piallatrice che ci era stata donata, s’è potuto levigare le tavole quindi passarle alla lavorazione.

Col procedere della costruzione, si faceva sempre più urgente la necessità di attrezzature più impegnative, ma ci rendevamo anche conto che, di pari passo, queste potevano essere capite e accolte. Quasi sempre le rimediavo gratuitamente e inviavo con container. Quanti ne abbiamo fatto partire!

Dopo otto, nove anni, quando iniziavamo a montare le grosse travature, ci è stata proposta una gru, che certamente ci sarebbe stata di grande aiuto, ma, prima di accettarla ci siamo chiesti “saranno in grado di capirla?” Soltanto dopo una attenta riflessione abbiamo accettato il dono.

Utilissima per montare il tetto, coadiuvata però anche da una grande abilità acrobatica .

Mi fermo qui, ma tutte le lavorazioni hanno seguito questo iter, e quando ci si trovava di fronte ad alcune lavori che non sapevano proprio da che parte cominciare, chiedevamo ad alcuni artigiani italiani di scendere per qualche tempo per insegnar loro. Solo per insegnare, non per fare.

Sono venuti per insegnare nuove tecniche costruttive, nuove metodologie di lavoro, hanno dato tempo, materiali, denaro. Sono tornati, siamo tornati, con altre ricchezze in mano: la genuinità della vita, l’amore alla vita, i valori veri, autentici della convivenza umana: la solidarietà, la disponibilità, l’amicizia, l’aiuto reciproco disinteressato, e ancora, il rispetto dell’uomo e della natura.

Progetto e realizzazione, integrati così in un unico processo creativo, hanno dato vita ad un’opera che poteva ben dirsi frutto dell’intera comunità, espressione di tanti e i più svariati apporti, e, In certo qual modo, veniva a completare quella prima ricerca di inculturazione che era alla base del  progetto

Oggi la cattedrale la si vede da lontano, dall’altra parte della valle dove si sviluppa la città, la si vede appena ci si affaccia ad Embu arrivando da Nairobi. E’ lì, punto forte di riferimento, orgoglio di tutti, credenti o no, segno di speranza.

Viene ora da chiedersi: quanti sono che, nel corso degli anni, hanno dato il loro contributo, hanno lavorato, fissi o volontari in questo cantiere? Difficile rispondere, sicuramente molti. Questa insolita costruzione, a dimensioni spropositate, che lentamente cresceva sulla loro terra, attirava tutti, o per lavoro o per curiosità, cattolici e non, tanto da finire coll’incidere sulla realtà sociale stessa. E silenziosamente si andavano tutt’attorno ri-costruendo una nuova dimensione umana, più matura, più forte, più aperta.

Il contatto con un’altra cultura, che qui si manifestava attraverso tecniche costruttive mai viste fino allora, che non avevano la pretesa di imporsi né di porsi come metro di misura, che si lasciavano prendere da mani inesperte fino a farsi impossessare totalmente da loro stesse una volta divenute capaci, ha finito coll’annullare diffidenze e aprire a una nuova fraternità che andava oltre i limiti tribali.

ALBUM

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