La ricostruzione post-sisma all’Aquila ha tempi lunghi, troppo lunghi se commisurati alle giuste esigenze della popolazione. Non c’è dubbio che questo tempo “sospeso” della ricostruzione peserà in futuro sulla composizione sociale e sull’organizzazione della città, in modo ancora non prevedibile. Ma i ritardi appaiono motivati dalla scelta intrapresa, almeno per quanto riguarda la città intramuranea, di lavorare in una vasta opera di ricucitura e riparazione, scartate le ipotesi iniziali di partire da zero per immaginare una “nuova” città. Tuttavia non si tratta di una ripresa “come era, dove era”. Rispetto alle altre ricostruzioni, che hanno puntato su drastiche delocalizzazioni (Belice) o su reinterpretazioni creative (Irpinia) o su ricostruzioni selettive (Friuli), l’Aquila sembra aver imboccato la strada di un “come è, dove è”. La città infatti non era una tabula rasa, dopo il 6 aprile 2009, ma aveva resistito con dignità, grazie alla continua opera di ricostruzione e assestamento dopo i tanti terremoti che da sempre scandiscono la vita della città. E guardando all’annullamento che è stato imposto ad Amatrice – inaccettabile episodio di nichilismo urbanistico – si deve ammettere che la via aquilana può rappresentare un valido modello, pur fra mille discussioni e polemiche.
La conclusione del restauro di palazzo Ardinghelli e ancor più la sua destinazione a sede di collezioni del MAXXI aprono ora nuove prospettive per la città. Com’è noto, si tratta di uno dei principali edifici dell’Aquila, per ampiezza, architettura e collocazione nel punto più alto, di fronte alla chiesa capoquarto di Santa Maria Paganica, prediletta dall’aristocrazia cittadina. Già sede della Pretura, e prima ancora dello studio di Teofilo Patini, il palazzo nasce come aggregazione di cellule e immobili diversi, unificati poi nel XVIII secolo, nell’altra grande ricostruzione della città, quella successiva al sisma del 1703. Si tratta quindi di un complesso di corpi edilizi che occupa circa due terzi dell’isolato, al fianco delle proprietà dei Camponeschi. Sigillo della fase settecentesca, oltre alla luminosa facciata sulla piazza, è la corte porticata, nota soprattutto per la sua terminazione curva, inserita quasi a forza tra gli immobili preesistenti.
Anche prima del sisma, l’edificio era sottoutilizzato e versava in condizioni proccupanti. Estesi i danni provocati dalle scosse del 2009, soprattutto a carico delle muri interni nel corpo lungo via Garibaldi, del loggiato sulla corte e delle coperture, gravate da anni di incuria e disattenzione. I lavori condotti dal Segretariato Regionale MiBACT per l’Abruzzo e dalla competente Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Aquila si sono giovati della consulenza, in fase progettuale, di alcune università (Genova, Catania, Chieti-Pescara e L’Aquila), sostenuta da studi sulla risposta sismica dell’edificio e sui suoi caratteri costruttivi. Il sostegno economico è stato garantito da un cospicuo finanziamento del governo russo, testimonianza concreta dell’interessamento internazionale per le sorti dell’Abruzzo.
Il palazzo è stato sottoposto ad una minuta e diffusa opera di ricomposizione e ricostruzione. Si è mossa su questo principio la ricostruzione delle murature interne, grazie all’impiego di mattoni pieni e alla ripresa, con tecnologie aggiornate, dei sistemi tradizionali messi in opera dopo il 1703 per contenere gli effetti dei sismi. Anche il cornicione è stato assicurato alle murature retrostanti ispirandosi alla tecnica costruttiva di origine. Il recupero dell’apparato lapideo, selezionato dal materiale di crollo anche a cura degli studenti universitari, che hanno lavorato al fianco dei tecnici della Soprintendenza, ha reso possibile il rimontaggio di molte parti, come il loggiato interno o alcune delle finestre in pietra, risalenti alle varie fasi dell’edificio.
I lavori hanno così permesso la riapertura del grande appartamento a piano nobile, con la sequenza dei saloni che si succedono fino alla grande sala angolare. Qui, la preesistente volta in canniccio, completamente travolta dai crolli, è stata rievocata con una struttura leggera che restituisce l’orditura lignea di una copertura a padiglione, suggerendo l’effetto spaziale originario, ma assicurando la luminosità dell’ambiente. Sempre nell’ottica di una ricostruzione che parte da quanto rimasto dopo il sisma, molti apparecchi voltati sono stati reintegrati, evitando di completare le decorazioni pittoriche o in stucco. La destinazione finale a sede del MAXXI ha orientato le finiture ad una veste unitaria, particolarmente efficace nel grande scalone “alla bolognese”, chiuso dalla volta affrescata da Vincenzo Damini nel 1749.
La nuova pavimentazione della corte attesta il diverso ruolo attribuito all’edificio. Una rampa supera oggi il non lieve dislivello che separava il corpo su via Garibaldi dalla corte e dalla facciata monumentale: un nuovo progetto che non ha un carattere di rottura, ma piuttosto la funzione di garantire continuità dei flussi e apertura alla città.
L’inserimento di opere d’arte contemporanea, molte delle quali site-specific, dovrà avere un ruolo rilevante nella rilettura degli spazi ora ritrovati. Forse in quel momento il senso complessivo del restauro potrà dirsi compiuto, proiettando nel presente e soprattutto nel futuro la vita della città.
Claudio Varagnoli