Per Portas. Cattedrale, eremo, museo

Opera, progetto, allestimento _ Un dialogo a partire dalle opere

Nelle giornate del 19, 20 e 21 Settembre 2014 si terrà a Pianoro (BO) ,presso Casa Santa Marcellina , un secondo colloquio sulla relazione fra chiesa e arti nel contemporaneo. Casa Santa Marcellina desidera mantenere viva l’attenzione nei confronti di questo argomento proponendo un confronto a partire dalle opere. Ne sono state scelte tre, nell’ambito delle arti visive, diversamente presenti nel contesto italiano ed europeo più vicino, attorno alle quali si possano incontrare e confrontare voci e contributi pertinenti per un approfondimento della questione nei tre luoghi emblematici della Cattedrale, dell’Eremo e del Museo.

Mariale di Simon Hantaï, alla Collezione d’Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani, 1960

Simon Hantar nasce nel 1922 in un villaggio presso Budapest. Dopo primi studi d’arte  in patria, nel 1948 viaggia in Italia e resta particolarmente colpito dalla visita a Ra­  venna (il titolo di una sua opera del 1958-1959 è A Galla Placidia). Decide con la  moglie di non rientrare in Ungheria, raggiunge Parigi nel 1949. Entra in contatto con  ambienti surrealisti ed approfondisce la conoscenza di artisti come Cézanne, Matisse,  Pollock. Custodisce e rivive tuttavia la memoria delle proprie origini e gli affetti.

Avrà  per lui un significato determinante il grembiale della madre (che gli viene inviato alla  morte di lei), al quale si può ricondurre la “tecnica” della piegatura della tela, cui  dedica gran parte della sua produzione a partire dagli anni sessanta.

Opera emblematica è il Mariale, manto della Madonna (Hantar uti­lizza come sostantivo  l’aggettivo che in italiano suona “ma­riano” per esprimere un riferimento alla Vergine Maria), donato alla Collezione d’Arte Religiosa Moderna dei Musei Vaticani, esposto per la prima volta in una mostra personale a Villa Medici a Roma nel 2014. Dai primi anni ottanta (nel 1982 rappresenta la Francia alla Biennale di Venezia) Han­tar cessa di esporre, dedicandosi esclusivamente al lavoro d’artista, seguito e commentato da figure significative della cultura francese come Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Hélène Cixous, Gilles Deleuze, Georges Didi-Huberman. Muore a Parigi nel 2008.

Porta Speciosa o Porta Filosofica, di Claudio Parmiggiani al Sacro Eremo di Camaldoli, 2013

Si ritiene che esista il “genius loci”: una corrispondenza tra luogo ed opera per cui questa trova il proprio stare bene “lì” e non altrove, perché “lì” è la sua giusta colloca­zione e la sua precisa pertinenza. È il luogo stesso a suggeri­re prima il progetto poi il compimento dell’opera e l’artista riesce nel proprio compito se asseconda questa corrispon­denza. Claudio Parmiggiani ha dunque compiuto l’opera. La Porta Speciosa o Porta Filosofica del Sacro Eremo di Ca­maldoli è stata realizzata cogliendo la sintonia naturale tra il paesaggio boscoso e la forte spiritualità del luogo. L’Ere­mo riceve e accoglie l’opera restituendole il senso profondo del suo essere.

La Porta è stata commissionata per ricordarei mille anni del Sacro Eremo e celebrare così il luogo con­sacrato; concentra in uno spazio limitato ma emblematico forma e sostanza della Consuetudo Camaldolensis. Sui bat­tenti i tronchi di due alberi in bronzo aggettano a tutto ton­do e rappresentano simbolicamente l’uno la morte (l’albero secco) e l’altro la vita (l’albero vigoroso). La porta di fatto segnala l’ingresso nella vita eremitica, in un mondo di silen­zio e di meditazione, e nello stesso tempo invita a varcare la soglia dell’Eremo verso un oltre che la tradizione monastica indica come realtà spirituale. Incise su una lastra di pietra queste parole del Liber Eremitice Regule introducono al si­gnificato delle virtù monastiche impresse a caratteri d’oro nella facciata interna della Porta: HIS ERGO POSSESSIS ARBORIBUS SOLITARIE VITE ILICO AD PERFECTIO­NEM CARITATIS PERVENIES

Presbiterio della Cattedrale di Faenza, di Giorgio Gualdrini, 2014

L’edificio sacro non è solo portatore di architettura come “forma simbolica” ma è spazio abitato dalla liturgia, è luogo vivo di preghiera. L’azione liturgica che trova il proprio centro nella celebrazione eucaristica implica dunque un uso liturgico dello spazio. Alla luce di tutto questo è significativo l’adeguamento funzionale del presbiterio della Cattedrale di Faenza, considerando sia le giuste esigenze di conservazione artistica, sia l’impegno della chiesa del post-concilio che in­tende recuperare l’aspetto comunicativo e conviviale delle ce­lebrazioni.

Si è deciso quindi per una soluzione ‘in appoggio’ del nuovo sull’antico: “…assieme ad una ‘teologia viatorum’ non sarà scorretto parlare di una ‘liturgia viatorum’, anch’es­sa costretta a camminare lungo i mutevoli cantieri della diver­se epoche storiche” . Si è adottato un atteggiamento non mime­tico nei confronti della preesistenza, privilegiando per altare, ambone e cattedra un tipo di onice bianco di densità materica e di luminosità tali da inserire i nuovi elementi in modo tan­to armonioso quanto palesemente distinguibile dal policromo altare maggiore composto in forme barocche da Giuseppe Pistocchi nel 1768. Essenzialità e sobrietà definiscono for­malmente il recente assetto del presbiterio faentino, proget­tato e realizzato dall’architetto Giorgio Gualdrini, attento ai rapporti aurei di “matematica dello spazio”, cifra qualificante dell’architettura di Giuliano da Maiano, e sensibile all’uni­verso delle relazioni che animano l’assemblea liturgica

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