Nella Galleria San Fedele a Milano, in mostra i vincitori del Premio Artivisive San Fedele 2012-13
Non è oggi facile parlare del corpo. Figli di un’antropologia d’ispirazione cartesiana che poneva l’accento sulla separazione tra anima e corpo, tra una res cogitans e unares extensa concepite come due entità in opposizione, siamo oggi coscienti che l’unità dell’uomo deve superare le scissioni e le separazioni che hanno caratterizzato tutta la storia della cultura occidentale. «Io non ho un corpo ma sono corpo», ricorda Nietzsche, sottolineando in questo modo che la corporeità non è il semplice attributo di un soggetto o un involucro da cui doversi liberare nell’attesa di un improbabile «al di là» separato dalla realtà, ma un termine che vuole esprimere un’equivalenza tra l’io e il corpo stesso. L’«io» è «corpo». Noi siamo corpo. Non utilizziamo o adoperiamo il corpo per le nostre azioni, come se fosse uno strumento di cui disporre. Come ricorda Sartre, quando scriviamo, noi siamo la nostra mano. Siamo i nostri occhi che vedono o le nostre mani che sentono.
Il nostro corpo parla. Il nostro corpo è «parola». La tradizione cristiana l’ha ben compreso, quando ha interpretato quel «corpo» crocifisso sul Golgota come la «Parola» per eccellenza, Parola che salva l’uomo dal potere del peccato e della morte. È il corpo del Logos incarnato. Quel corpo morente sulla croce salva l’umanità dalla violenza dell’uomo contro l’altro uomo. Cristo non risponde alla violenza con la violenza, ma con il perdono, la misericordia. Quel corpo ci dice che la vita umana è destinata alla risurrezione. Il suo corpo, dalle tenebre della morte, risorge alla luce della vita. Quell’uomo è stato tanto amato dal Padre che il suo corpo non può concludersi con la corruzione nel sepolcro. Con la sua risurrezione, anche noi siamo destinati alla vita eterna.
Nell’Ultima Cena, raccontano i vangeli sinottici, Cristo offre il proprio «corpo» ai discepoli, attraverso il pane e il vino, vale a dire il suo corpo e il suo sangue, simboli della sua stessa vita. L’Ultima Cena, condivisa con i discepoli, diventa così il momento per eccellenza della condivisione, della fraternità, di uno stare insieme che si fonda sull’amore reciproco. Mangiando il suo corpo e il suo sangue, attraverso la celebrazione eucaristica, l’uomo diventa corpo di Cristo, comunità vivente, popolo di Dio. Il dono del proprio corpo diventa simbolo dell’offerta di una vita per gli altri.
La mostra, a cura di Andrea dall’Asta SJ e di Daniele Astrologo Abadal, Ilaria Bignotti, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Kevin McManus, presenta i lavori di alcuni giovani artisti che si sono liberamente ispirati a queste tematiche. Da Serena Zanardi che rappresenta con le sue sculture spazi di fraternità e di condivisione a Massimiliano Gatti che riflette sul tema della croce a partire dall’esperienza concreta dei migranti di Lampedusa. Se Francesco Arecco costruisce un vero e proprio tabernacolo da collocarsi in uno spazio sacro, Gaspare realizza una croce sotto la cui ombra siamo tutti chiamati a sostare. Se Mario Scudeletti crea “sindoni contemporanee” imprimendo tracce con bruciature su t-shirt, Isabella Mara propone un corpo-parola formato da tanti ciottoli sui quali sono scritti salmi biblici.
Spazi di fraternità e condivisione, Serena Zanardi