Pubblichiamo la relazione tenuta da mons. Timothy Verdon al seminario di apertura sul Laboratorio Adeguamento Cattedrali tenutosi a Milano.
Le cattedrali e l’identità europea
Timothy Verdon
29 marzo 2019
Al cuore di ogni città europea di qualche importanza, vi è una cattedrale, segno della presenza – in un arco di secoli più o meno lungo – di una comunità cristiana operosa. Tipicamente grande, questa struttura s’impone sulla coscienza del cittadino come del turista, costituendosi un tratto significativo della fisionomia del luogo. Depositaria d’innumerevoli cimeli del passato, invita a cogliere l’identità storica degli abitanti del posto, e a collegarla allo slancio creativo ingenerato dalla fede; la bellezza dell’edificio e dell’arte che l’arricchisce infatti fornisce una chiave di lettura della vita interiore di coloro che l’hanno voluta, costruita e mantenuta, cifra sicura dei valori collettivi che da due millenni plasmano l’esperienza spirituale d’Europa.
Il primo di questi ‘valori’ è religioso: quello di un rapporto privilegiato con Dio. Le cattedrali sono emblematiche di questo rapporto: sono chiese ossia case di preghiera per un popolo che si crede convocato da Dio. Sono chiese speciali, poi, normalmente più grandi e belle di altre perché – come il biblico tempio di Gerusalemme – accolgono la vita non dei soli abitanti del posto ma di tutti coloro che Dio chiama; ogni cattedrale infatti simboleggia l’universalità della vocazione cristiana e merita il nome che la Bibbia attribuisce all’antico tempio ebraico: “una casa di preghiera per tutti i popoli” (Is56,7). Proprio questa frase verrà citata da Gesù quando, prima della sua passione, Egli libera il tempio di Gerusalemme da venditori e cambiavalute, dicendo: “Non sta forse scritto: ‘La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti’? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri! (Mc11,17; cfr. Mt21,12-13; Lc19,46). Ogni cattedrale simboleggia cioè l’universalità di un rapporto con Dio purificato da Cristo, e si offre come quel ‘luogo’ di cui Egli parlava alla Samaritana, dove “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv4, 23). Le cattedrali sono case di preghiera per coloro che, rispondendo a Dio, si lasciano trasformare in veri adoratori; sono segni permanenti di un rapporto dinamico, che trasforma l’uomo nei suoi rapporti con altri uomini, anzi con ‘tutti i popoli’.
All’interno di questi edifici vi è poi un altro segno, che spiega pienamente il senso del termine ‘cattedrale’: la cattedra o sedia del vescovo, spesso realizzata in materiali nobili e forme monumentali. Ciò che distingue una cattedrale da altre chiese è infatti la presenza di questa sedia del ministro ecclesiastico considerato un successore degli apostoli inviati da Cristo a tutte le nazioni, l’episcopus o vescovo. L’universalità della cattedrale dipende, in effetti, dall’universalità della missione affidata da Cristo ai suoi apostoli dopo la Risurrezione, quando disse loro: “Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt28,19- 20). In pratica, la cattedra posta in prossimità all’altare esplicita le funzioni assegnate in quell’occasione da Cristo, di ammaestrare e santificare tutte le nazioni. Il magistero dei vescovi al servizio della santificazione di successive generazioni, nei luoghi dove sorgono cattedre e cattedrali, è poi un elemento costitutivo della promessa trasformazione dei credenti in veri adoratori del Padre.
Insieme all’insegnamento e alla santificazione dei popoli loro affidati, i vescovi hanno una terza funzione, pure questa comunicata dalla cattedra e dall’associata struttura architettonica: quella di governare ‘in persona Christi’. Il comando di ammaestrare e battezzare tutte le nazioni, nell’appena citato brano del Vangelo, viene infatti introdotto e completato da frasi che riguardano l’eccelsa autorità del Salvatore perdurante nei suoi inviati. “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”, dice; e poi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt28,18 e 20b). La frequente presentazione della cattedra come trono e della cattedrale come aula regia (‘basilica’) derivano da quest’ultima funzione, in cui sono effettivamente compendiate le altre due, perché l’obbedienza dei fedeli ai loro vescovi già implica l’acquisizione di una sapienza che santifica, secondo un principio enunciato da Cristo. Parlando agli apostoli, Egli disse: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato” (Mt10,40); e in un’altra occasione: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato” (Lc 10,16).
Dagli inizi del cristianesimo, questo principio di obbedienza è stato riconosciuto come fondamentale alla comunione ecclesiale. Uno scrittore del II secolo, sant’Ignazio d’Antiochia, afferma che “Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, opera secondo la volontà del Padre, come i vescovi, costituiti in tutti i luoghi sino ai confini della terra, agiscono secondo la volontà di Gesù Cristo”. A questa frase il santo fa seguire poi l’appassionato invito “di operare in perfetta armonia con il volere del vostro vescovo”, notando che il clero della comunità destinataria del suo testo era già “così armonicamente unito al vescovo, come le corde di una cetra; in tal modo, nell’accordo dei vostri sentimenti e nella perfetta armonia del vostro amore fraterno, s’innalzerà un concerto di lodi a Gesù Cristo”. 1
Nella logica di questo sistema spirituale, è facile comprendere i segni materiali che c’interessano. La cattedra in prossimità all’altare simboleggia l’armonica unità dei fedeli con il loro vescovo, del vescovo con Cristo e di Cristo con il Padre; e l’edificio che ospita la cattedra e l’altare a sua volta magnificano il simbolo. Come afferma un moderno padre della Chiesa, Paolo VI: “La cattedrale è di Cristo, a Cristo ogni cattedrale appartiene. Per Lui si è innalzata una cattedra, sulla quale il suo apostolo, in sua vece, parlerà; per Lui un trono, sul quale chi tiene il suo posto siederà; per Lui un altare, dal quale chi lo rivive farà salire al Padre il suo stesso sacrificio; per Lui è qui riunita la Ecclesia, il popolo col suo vescovo, ed a Lui innalza il suo inno di gloria e la sua gemente preghiera; è da Lui che questo tempio acquista la sua misteriosa maestà”. 2
Ogni cattedra in ogni cattedrale va quindi visualizzata nei termini già suggeriti in un mosaico romano degli inizi del V secolo, dove a sedere sul trono in mezzo all’assemblea è Cristo stesso, glorioso sopra l’altare eucaristico. L’ubicazione di questo mosaico in una basilica romana, poi – Santa Pudenziana -, e la presentazione di Cristo come un imperator tra apostoli trasformati in patrizi togati, suggeriscono un altro aspetto del nostro tema: la compenetrazione della vita ecclesiastica cristiana dai simboli dell’antico impero romano. Già il linguaggio usato da Ignazio d’Antiochia per descrivere l’organizzazione della Chiesa nel II secolo (il periodo di massima espansione dell’impero romano), s’ispirava alla retorica dello stato avvezza di metafore musicali, e con l’accettazione ufficiale del cristianesimo al tempo di Costantino e l’assunzione da parte dei prelati cristiani di insegne derivanti dalla gerarchia civile quali i ceri e l’incenso, la metafora si traduceva in realtà. Con la successiva definizione delle circoscrizioni ecclesiastiche secondo la ripartizione territoriale dell’impero in ‘diocesi’, il sogno romano di unità politica e culturale venne assimilato alla visione cristiana di comunione ecclesiale che Ignazio d’Antiochia vide radicata nel rapporto tra Cristo e Dio Padre.
Consegue che, dalla fine dell’Antichità e per tutto il Medioevo, la sedia vescovile in una chiesa cattedrale evocava – oltre alla comunione della Chiesa locale col suo capo – l’aspirazione di ricostituire l’onnicomprensiva armonia dell’antico impero unito intorno al trono. Questo grazie anche al ruolo legittimante del pontefice romano, il papa, la cui autorità sull’antica capitale sostituiva quella dei Cesari; la comunione col vescovo di Roma dei vescovi dell’Europa post-antica in qualche modo perpetuava, infatti, la struttura dell’antico stato, e l’identità ecclesiale cristiana, di nazione santa, s’innestava sull’identità civica tramandata dal tardo impero, il concetto giudeo-cristiano ‘popolo di Dio’ sovrapponendosi a quello romano di plebs, un popolo autonomo con diritti e doveri, capace di difendersi e pronto al sacrificio.
Questa sovrapposizione concettuale contribuisce al prestigio delle cattedrali, che – nella frammentazione geopolitica dei secoli bui e del primo Medioevo – erano normalmente le uniche strutture cittadine con residue valenze universali, segni della trasformazione dell’antico sogno imperiale in dinamico progetto ecclesiastico. Alla sovrapposizione di concetti veniva poi associata una concreta assimilazione di funzioni che, tra il VI e il IX secolo, attribuiva ai vescovi poteri di governo civile. Questo processo, preannunziato dall’eminenza accordata ai prelati cristiani alla corte costantiniana, si sviluppò nell’ambito della civiltà bizantina, assumendo caratteristiche permanenti nell’organizzazione dell’impero cristiano d’Occidente a partire dall’epoca carolingia, con vescovi spesso designati amministratori civili degli stessi territori diocesani. L’intima e precoce associazione del potere episcopale con quello dello stato è suggerito dalla magnifica cattedra realizzata da maestranze costantinopolitane per Massimiano, vescovo di Ravenna alla metà del VI secolo, e del ritratto di quest’ultimo al fianco dell’imperatore di Bisanzio, Giustiniano I, insieme ad altri alti funzionari, nel noto mosaico di una chiesa ravennate.
La liturgia e le cattedrali
Il mosaico appena accennato, nella basilica di San Vitale a Ravenna, indica poi il contesto tipico in cui avveniva la compenetrazione di simboli mutuati dallo stato con i grandi segni del cristianesimo: la liturgia. Situato nel presbiterio della basilica, il mosaico infatti raffigura una processione liturgica, con Giustiniano che reca i doni all’altare all’offertorio mentre altri portano il lezionario e l’incenso; Massimiano stesso, parato di casula e stolone, ha in mano una splendida croce gemmata, che servirà similmente alla celebrazione liturgica. Questa basilica di San Vitale, anche se non la cattedrale ‘ufficiale’ di Ravenna, era ciò che oggi verrebbe denominato una ‘co-cattedrale’: una chiesa costruita per volontà dei vescovi della città e da loro usata in occasioni particolari; è pertanto significativa l’importanza del tema liturgico nel suo corredo d’immagini, che oltre al mosaico qui riprodotto include una scena analoga, con la consorte di Giustiniano, l’imperatrice Teodora, che in compagnia delle sue dame ed altri funzionari similmente reca i doni all’altare. Queste raffigurazioni ‘d’attualità’ fanno parte, poi, di un programma con rimandi alle espressioni liturgiche dell’Antico Testamento – i sacrifici di Abele e di Melchisedek, su un altare simile a quello che dobbiamo immaginare in San Vitale all’epoca dell’esecuzione dei mosaici, e con la figura di Cristo nella porpora imperiale seduto sopra i cieli, nel catino absidale dietro l’altare. Così la liturgia a cui vediamo partecipare l’imperatore insieme al vescovo Massimiano viene situata in rapporto sia al remoto passato, sia al futuro ultimo, quando il Signore tornerà sulle nubi per giudicare i vivi e i morti.
Sottolineo questi fatti perché ogni cattedrale, in quanto chiesa, serve in primo luogo come palcoscenico liturgico. Più d’altre chiese essa rende intelligibile la liturgia, perché all’altare va, non un ministro di rango secondario, ma il successore degli apostoli a cui Gesù all’Ultima Cena, offrendo il pane e vino, disse: “Fate questo in memoria di me”. Dalla cattedra parla il successore di coloro a cui Cristo comandò di ammaestrare e battezzare tutte le genti, e nello stesso modo governa il successore di coloro a cui Egli promise: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. E se per molti secoli sia cattedre che cattedrali evocavano l’ordine armonico di un antico impero terrestre, investendo di dignità storica il sogno di unità tra i popoli, ancor oggi nel contesto della liturgia la presenza di un successore degli apostoli infonde comunione tra coloro che sono chiamati ad entrare nel regno dei cieli, co-eredi di Cristo e concittadini dei santi. Comprendiamo lo splendore delle cattedrali e ciò che Paolo VI chiamava “la loro misteriosa maestà” solo quando contempliamo questi edifici in termini della loro funzione: non solo come monumenti d’arte ma innanzitutto come luoghi per la liturgia.
Proprio quest’ottica funzionale offre la più sicura chiave di lettura dello stesso carattere artistico delle cattedrali – della magnificenza della loro architettura e della ricchezza delle opere ivi contenute -, perché la liturgia è in sé opera artistica e generatrice d’arte. Composta di azioni rituali abbinate a testi sacri, ha bisogno di grandi spazi in cui svolgere le azioni e di arredi che illustrano i testi. Nella tradizione cristiana, poi, essa ha costituito l’occasione principale d’incontro e scambio per gli artisti, dal momento che i grandi spazi, le processioni, i canti sacri , le immagini e suppellettili presuppongono la collaborazione di professionisti nei vari campi: architetti e coreografi, compositori, cantori, poeti, pittori, scultori, orefici 3. Nella tradizione cristiana come in altre antiche culture religiose l’estro creativo è considerato un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme – ogni capacità di ideare e creare cose belle e significative – viene pensata in rapporto al sacro, così che al servizio della liturgia l’artista cristiano sente di realizzare pienamente la propria vocazione. Nell’Antico Testamento, infatti, la stessa origine delle arti viene presentata in funzione del culto, e “gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario” vengono istruiti da Moisè in persona, perché facciano “ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato” (Es36,1).
Non vi è contraddizione in questo parallelismo, del resto tradizionale, tra l’antico santuario del popolo eletto – la tenda nel deserto, il tempio di Gerusalemme – e le grandi chiese, perché nella liturgia cristiana il limite del tempo viene misticamente superato e gli eventi (anche remoti) della storia della salvezza confluiscono nell’unico grande ‘evento’ reso presente nell’Eucaristia. In questa logica, come spiega un Padre della Chiesa, Cristo crocifisso sul Golgotha “è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Moisè e nell’agnello fu sgozzato; fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato”.
Quest’aspetto atemporale della liturgia, pur operativo nella più sperduta chiesina di campagna, ha speciale forza in una cattedrale, dove il Cristo in cui l’intera storia della salvezza confluisce è visibile nel vescovo, considerato infatti “sacramento personale” della presenza del Salvatore. Ciò è vero soprattutto quando il vescovo celebra la Messa, e sin dagli inizi del cristianesimo i cristiani hanno visto, nel successore degli apostoli all’altare, Colui che è il vero “pastore, sommo sacerdote, via e porta e come tale si rende presente nella celebrazione della solennità”, Cristo, come affermava sant’Atanasio all’inizio del IV secolo. E’ il messaggio di una sedia liturgica episcopale o abbaziale conservata ai Musei Vaticani dove, nella parte centrale dello schienale, è raffigurato un altare con una grande croce e, dietro l’altare, Cristo stesso che celebra la Messa (fig. 6). La nudità del “sacerdote”, nonché il suo gesto orante – le braccia allargate ed alzate (il gesto appunto del sacerdote che celebra la Messa) – traducono in termini rituali il sacrificio compiuto sul Calvario. Sopra questo “sacerdote-vittima”, una seconda raffigurazione lo presenta glorificato, in letterale traduzione di un altro passo neotestamentario, dove si afferma di Cristo che, “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio” (Eb12,2). O, come dice un altro padre della Chiesa, il vescovo Fulgenzio di Ruspe, “Cristo, dunque, pur rimanendo Dio, Unigenito di Dio, al quale offriamo sacrifici come al Padre, diventando servo si è fatto sacerdote, e così per suo mezzo possiamo offrire una vittima viva, santa, gradita a Dio”.
Più che di ‘atemporalità’, nel contesto liturgico bisogna invero parlare di un’interpenetrazione di tempi e condizioni tale che nel vescovo i fedeli vedono Cristo Dio e servo, nel cui mistero è rivelato sia la gloria dell’eterno Padre che la sofferenza storica di Abele e Giacobbe, Giuseppe, Moisè e ogni uomo. Tale infatti è il fluido quadro che dà senso all’accumulo di cimeli e immagini di diverse epoche – di statue, affreschi, pale d’altare, mosaici, vetrate, arazzi evocanti profeti e re, martiri e confessori, esponenti della vita pubblica e privati – che riempiono le cattedrali non come reperti miscellanei in un museo, ma l’unisona testimonianza attraverso molto tempo e in diverse situazioni umane dell’incontro di successive generazioni con Colui che è “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb13,8), Cristo, morto, risorto, asceso alla gloria.
L’interazione del tempo con l’eternità traspare nel magnifico Benedizionale della cattedrale di Bari, dove un’immagine visualizza Cristo risorto e glorioso presente nella liturgia del battesimo. Come altre pergamene di questo tipo, il Benedizionale, utilizzato nella notte di Pasqua 4, ha le miniature rovesciate rispetto al testo così che – man mano che il diacono recitava dall’alto dell’ambone – la pergamena che si srotolava davanti ai fedeli lasciava vedere immagini che suggerivano il senso del testo. Qui l’artista inserisce il maestoso Cristo nella ‘V’ invertita del “Vere dignum et justum est” che introduce la solenne benedizione del fonte battesimale. Al di sotto di Cristo, la mano del Padre manda lo Spirito sul fonte al momento stesso in cui il vescovo ne benedice l’acqua; dalla parte opposta un diacono immerge il cero pasquale, simboleggiante la ‘luce di Cristo risorto’, mentre il popolo porta i bambini al battesimo.
Questa ‘fotografia’ di un rito celebrato mille anni fa apre un nuovo orizzonte sul nostro tema. Ciò che abbiamo chiamato un ‘incontro’ col Cristo vivente tra il tempo e l’eternità nel contesto della liturgia, è in realtà molto di più: nel contesto della liturgia i fedeli non solo ‘incontrano’ il Salvatore ma vengono inseriti fisicamente nella sua condizione gloriosa mediante segni sacramentali! Vengono immersi in acque ricolme del suo Spirito, unti con oli sacri (suggeriti nel Benedizionale dai quattro vasi intorno alla base del fonte) che li rendono partecipi della sua divina elezione, e in celebrazioni presiedute dal vescovo i fedeli percepiscono chiaramente lo stato privilegiato a cui ha diritto ogni cristiano, il quale può dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal2,20).
Vivere della vita di Cristo significa poi – come abbiamo visto nel programma del presbiterio di San Vitale – vivere l’intera gamma storica della salvezza, avere in sé la sofferenza e il trionfo di tutti coloro che, nei secoli, sono stati condotti verso la terra promessa. L’inno trionfale cantato nella liturgia della notte di Pasqua in cui avviene la benedizione del fonte, l’Exultet, insiste su questo punto, ricordando l’esodo dell’antico popolo eletto dall’Egitto. Precisa che la stessa celebrazione notturna in cui viene acceso il cero e benedetto il fonte “è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case dei fedeli. Questa è la notte in cui [tu o Dio] hai liberato i figli d’Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto, e li hai fatti passare illesi attraverso il mare rosso. Questa è la notte in cui [tu o Dio] hai vinto le tenebre del peccato con lo splendore della colonna di fuoco” 5. L’Exultet, il cui testo era per molti secoli cucito alla pergamena del Benedizionale barese 6, infatti ricollega la celebrazione pasquale agli stessi inizi della storia umana, proclamando che con la sua croce Cristo “ha pagato per noi all’Eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica” 7.
Quest’evocazione interessa al nostro tema, perché il tipo di liturgia illustrata nel Benedizionale infatti avveniva quasi esclusivamente nelle cattedrali, che nelle città dell’Europa medievale erano le uniche chiese ad avere il privilegio del fonte battesimale. Dentro l’edificio o in una struttura annessa – un apposito ‘battistero’ -, in Italia, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra ed altrove, per mille anni le cattedrali hanno partorito cristiani alla luce del cero pasquale, collocandoli tra la storia e l’eternità, figli del primo Adamo inseriti per il battesimo in Colui che il Nuovo Testamento chiama nuovo Adamo, Cristo, presente al rito nella persona del suo apostolo, il vescovo diocesano. Le cattedrali, cioè, erano madri di un’umanità nuova, e i loro cimeli storici e raffigurazioni di eroi e santi del passato vanno rilette nella dinamica di un’energica trasmissione di vita.
Sala per le feste, talamo, via trionfalis
Lo splendore dei riti elaborati per le cattedrali tra il IX e il XIII secolo – chiamati ‘pontificali’ perché presieduti dal vescovo o pontifex della Chiesa locale – in parte deriva dalla liturgia monastica di quel tempo: un legame, questo, che riflette accuratamente la fisionomia della Chiesa dell’epoca, che si serviva dei monaci come missionari e sceglieva papi e vescovi dai ranghi degli ordini monastici, dando inoltre – mediante gli scriptoria monastici – un’impronta contemplativa alla cultura del periodo. Il Benedizionale di Bari, ad esempio, fu verosimilmente realizzato nel monastero benedettino di quella città, e la facilità dell’anonimo artista nel suggerire la dimensione mistica del rito sacramentale ne rispecchia la spiritualità.
Un’altra miniatura d’origine monastica, in un sacramentario tedesco della fine del X secolo passato poi alla cattedrale di Udine, permette di sviluppare questo quadro della vita liturgica medievale 8. L’immagine evoca liberamente lo scenario del Libro dell’Apocalisse: la spettacolare liturgia escatologica in cui “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare” (Ap7,9) celebra le lodi dell’Agnello che ha riscattato con il suo sangue “uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e li ha costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti” (Ap5, 9-10). Al centro della composizione, sotto l’Agnello una figura femminile recante un calice rappresenta la Chiesa, in unione con la quale gli “uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” esercitano il loro ‘sacerdozio’ di oblazione e lode.
Ecco il modello biblico di ogni liturgia cristiana e in modo particolare delle celebrazioni tipiche delle cattedrali. Ogni Messa e soprattutto ogni solenne Messa pontificale diventa escatologica rivelazione di “un nuovo cielo e una nuova terra”, epifania de “la città santa, la nuova Gerusalemme” nell’atto stesso di “scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo Sposo” (Ap1,1 e 21,1-2). Nella moltitudine raffigurata dal miniaturista, leggiamo infatti inesprimibile desiderio: l’atmosfera è estatica, e la donna vista da tergo, al centro del registro inferiore, con le braccia alzate verso l’Agnello sembra pronunciare le ultime frasi dell’Apocalisse, eloquenti d’amore sponsale: “Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni!’ ”, e Colui che attesta all’uomo la realtà di una vocazione celeste, Cristo Gesù, risponde: “Sì, verrò presto!” (Ap22,17-20). Ogni liturgia anticipa queste nozze dell’Agnello, ogni presbiterio si rivela un talamo, ogni chiesa è una sala per le feste.
Gli arredi presbiteriali di due cattedrali italiane, Siena e Firenze, suggeriscono un’ulteriore dimensione di questa simbologia liturgica: non solo anticipazione della grande festa futura, ma allusione alle festose liturgie del passato, all’interno di quel superamento del limite temporale accennato sopra. L’area pavimentale antistante l’altar maggiore nella Metropolitana senese, ad esempio, raffigura il Re Davide che, nella tenda da lui eretta a Gerusalemme per l’arca dell’alleanza, “stabilì che alcuni leviti stessero davanti all’arca del Signore come ministri per celebrare, ringraziare e lodare il Signore, Dio d’Israele. Erano Asaf il capo, Zaccaria il suo secondo, Uzziel, Semiramot, Iechiel, Mattatia, Eliab, Benaia, Obed-Edom e Ieiel, che suonavano strumenti musicali, arpe e cetre; Asaf suonava i cembali. I sacerdoti Benaia e Iacaziel con le trombe erano sempre davanti all’arca dell’alleanza di Dio” (1Cr16,4-6). E una delle due cantorie commissionate mentre si ultimava la cupola del duomo fiorentino, quella di Luca della Robbia, similmente evoca l’antica liturgia gerosolimitana, illustrando il tripudio musicale descritto nel Salmo 150, il cui testo completo è inciso nel marmo della cantoria. I fanciulli e giovani scolpiti da Luca per l’area dietro l’altare della colossale cattedrale di Firenze rispondono, cioè, al gioioso invito del salmista: “Alleluia! Lodate il Signore nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua potenza, lodatelo per i suoi prodigi, lodatelo per la sua immensa grandezza. Lodatelo con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra, lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti. Lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti; ogni vivente dia lode al Signore. Alleluia!”.
Per comprendere le cattedrali bisogna saper restituire all’armonia della loro architettura quest’altra armonia: questa gioia nel contempo antica, attuale e futura che da sempre anima l’esistenza delle grandi chiese. Bisogna saper alzare gli occhi alle volte vertiginose o all’intradosso delle cupole come i personaggi che, in un libro corale del duomo di Verona, guardano a Cristo; saper riconoscere nell’assemblea che affolla le navate, come nel clero che ascende all’altare, il corteo del trionfatore – di Cristo, “victor rex”- che nella risurrezione ha sconfitto il peccato e la morte per sempre. La cattedrale, che abbiamo chiamato ‘sala per le feste’ e ‘talamo’, è infatti anche una via trionfalis su cui viene solennizzata la vittoria del Salvatore e dei salvati.
1 Lettera agli Efesini, capp. 2,2ss. Cfr. F.X. Funk, K. Bihlmeyer, Die apostolischen Vaeter (seconda edizione), Tubinga 1956: 1, 175-177).
2 Il segreto della cattedrale (discorso di Giovanni card. Montini, arcivescovo di Milano, pronunciato nel rinnovato duomo di Crema nel 1959), Crema 1997.
3 La letteratura sulla liturgia e sull’arte al suo servizio è sterminata. Di particolare interesse per il presente volume sono: M. Righetti, Manuale di storia liturgica, terza edizione, Milano 1964 (edizione anastatica 1998), 4 voll.; C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia. Saggio di liturgia teologica generale, Roma 1957 J. Jungmann, S.I., The EarlyLliturgyTto the Time of Gregory the Great, Notre Dame, Indiana 1959; G. Van der Leeuw, Sacred and Profane Beauty. The Holy in Art, trans. D. E. Green, New York 1963 ; L. Bouyer, Eucharistie: théologie et spiritualité de la prière eucharistique, Parigi 1966; J.M. Powers, Eucharistic theology, New York 1967; H. U. Von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, 6 voll., Milano 1971; T. Klauser, La liturgia della Chiesa occidentale. Sintesi storica e riflessioni, Torino 1971; M.-D. Chenu, “Pour une anthropologie sacramentale”, in La Maison Dieu 3 (1974): 85-100; B. Cooke, Ministry to Word and Sacraments. History and Theology, Philadelphia 1977; C. Jones, G. Wainwright, E. Yarnold, S.I. (a cura di), The Study of Liturgy, New York 1978 (con importanti saggi di P.G. Cobb, “The History of the Christian Year”, 403-418, e “The Architectural Setting of the Liturgy”, 473-487; K. Donovan, S.I., “The Sanctoral”, 419-431; H. Wybrew, “Ceremonial”, 432-439); L.M. Chauvet, Du symbolique au symbole. Essai sur les sacrements, Parigi 1979; D. Sartore, “Panoramica critica del dibattito attuale sulla religiosità popolare”, in AA.VV., Liturgia e religiosità popolare. Proposte di analisi e orientamenti (Atti della VII settimana di studio dell’Associazione dei professori di liturgia), Bologna 1979, 17-50; L. Maldonado e D. Power, (a cura di), Symbol and Art in Worship, New York, 1980; D. Power, Unsearchable Riches: The Symbolic Nature of Liturgy, New York 1984; B. Neunheuser, Storia della liturgia attraverso le epoche culturali, seconda edizione, Roma 1983; D. Sartore, A.M. Traicca (a cura di), Nuovo Dizionario di liturgia, Roma 1984; E. Lodi, E. Ruffini, “Mysterion” e “Sacramentum”. La sacramentalità negli scritti dei Padri e nei testi liturgici primitivi (“Nuovi saggi teologici 24”), Bologna 1987; R. Tagliaferri, “Modelli di comprensione della scienza liturgica”, in Il mistero celebrato. Per una metodologia dello studio della liturgia (Atti della XVII settimana dell’Associazione dei Professori di Liturgia, Assisi 1988), Roma 1989, 19-102; P.E. Fink, S.I. (a cura di), The New Dictionary of Sacramental Worship, Collegeville, Minnesota 1990; C. Valenziano, Liturgia e antropologia, Bologna 1997; V. Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, Bologna 2001 (con amplissima bibliografia); T. Verdon, L’arte sacra in Italia, Milano 2001.
4 Cfr. la scheda di F. Magistrale in AA.VV., Exultet. Rotoli liturgici del medioevo meridionale, a cura di G. Cavallo, Roma 1994, pp. 143-45; G. Cavallo, “La cultura italo-greca nella produzione libraria”, in AA.VV., I bizantini in Italia, a cura di V. von Falkenhausen, Milano 1993, 495-614.
5 Conferenza Episcopale Italiano, Messale romano, Città del Vaticano, 1983, 166-168.
6 AA.VV., Exultet. Rotoli liturgici, cit. (sopra, nota 7), p 143; oggi il testo dell’inno è staccato.
7 Messale romano, cit.(sopra, n. 8), 166-168.
8 Udine, Archivio Capitolare ms. 1, il cosiddetto “Sacramentario fuldense”.