A margine della seconda giornata del Convegno, le interviste a Micol Forti, Musei Vaticani, Città del Vaticano e a Giuliano Zanchi, Museo diocesano “Adriano Bernareggi”, Bergamo.
a cura di Stefano Agresti
Osservando gli esempi che lei ha riportato nella sua relazione, l’impressione generale è che, laddove l’artista è intervenuto proponendo volumi essenziali e privi di figurazione narrativa – l’esempio di Robert Morris al Duomo di Prato è calzante – si sia creato un rapporto più equilibrato col contesto antico. È possibile ritenere questi casi, dove a prevalere è la forma pura, astratta, dei possibili modelli per l’adeguamento liturgico?
Micol Forti: Il cuore della questione è: cosa s’intende per essenziale? Se l’essenzialità è l’armonia di tutti gli elementi che compongono un’opera in sé, e che completano l’opera nella sua partecipazione allo spazio, in particolar modo quello liturgico, allora ogni elemento può essere essenziale, anche in un altare realizzato da artisti figurativi con tecniche tradizionali, con forme che non siano necessariamente geometriche, chiuse e contenute. Il problema è lì, ovvero cosa noi intendiamo per essenzialità. Anche una linea orizzontale, o quattro gambe mal pensate possono essere uno sfregio di uno spazio; non è vero che la pochezza di linee o le geometrie non siano in grado di stravolgere in negativo l’equilibrio di uno spazio. Può diventare una barriera, può diventare un ostacolo, un taglio visivo. Anche lì si tratta di una dialettica di moltissimi elementi. Se, viceversa, per essenzialità noi intendiamo il fatto che i linguaggi astratti sono tendenzialmente più semplicemente accoglibili da parte dello spazio storico, banalizziamo il problema, scaraventiamo la questione alla punta dei nostri piedi, e non gettando lo sguardo in una prospettiva. Per esempio, non tutti i contesti storici si adeguano alla geometria. Bisogna dunque riflettere sul concetto di essenzialità, che va a braccetto con quello di efficacia e di necessità. Tutto ciò che è in un altare dev’essere necessario. Quello che non va negli esempi figurativi che ho mostrato è una sovrabbondanza di elementi rispetto all’oggetto e alla sua funzione.
Una cosa che mi interessava approfondire con lei è la questione del carattere metafisico dell’altare. L’altare è un elemento fisico, con un suo peso, una sua matericità, ma è anche un luogo metafisico. Sotto questo punto di vista, può la forma pura fornire quel gradiente di immagine e di immaginario capace di ricondurre a questa dimensione?
Micol Forti: Può collaborare, può coadiuvare, ma la chiave della potenzialità metafisica dell’altare è nell’azione liturgica, non l’altare stesso. È dunque la liturgia che deve funzionare in questa dialettica. L’altare in sé può essere metafisico, ma può esserlo sempre, se armonioso, funzionalmente concepito, ma soprattutto se è attivato. Se non è attivato, un blocco di marmo è essenziale, ma rimane un blocco di marmo.
Un’ultima domanda. Un problema che è stato sollevato stamattina è quello della committenza, e lei vi ha fatto cenno a proposito dell’intervento di Mario Airò e Stefano Arienti a Sedrina (Bergamo). Deve essere la committenza più presente e fornire una sorta di perimetro d’azione rispetto agli artisti e agli architetti? C’è il rischio che il dialogo non si venga a instaurare?
Micol Forti: La committenza deve essere presente, consapevole, coraggiosa, per guidare e lasciare libertà. Esattamente come gli artisti e gli architetti, il liturgista è fondamentale, perché deve dare delle linee guida e dei binari in cui correre. Nessuna opera d’arte nasce senza contesto, nessuna opera d’arte è un fungo. In questa sinergia, in cui tutti questi elementi devono essere attivi e consapevoli, ci vuole una lunghissima sedimentazione. E poi, bisogna rischiare; se non si rischia, non si otterrà un futuro.
Lei pensa che nei campi dell’arte e dell’architettura ci sia attualmente la necessaria sensibilità per poter sviluppare il discorso che lei ha presentato nel suo contributo?
Giuliano Zanchi: Il mio pensiero di fondo è che il vero problema sia la mancanza di univocità nella committenza ecclesiastica, ma non tanto nel senso di suggerire dei modelli costruttivi specifici o di chiedere agli architetti che li applichino, quanto nel senso di una chiesa che non sa come celebrare, e che ha solo degli elementi di nostalgia per dei modelli celebrativi in cui si trovava con sicurezza; non è stata trovata una forma celebrativa che sappia ispirare dei veri spazi. Questo significa che il committente di fronte all’architetto non sa mai cosa dire, e l’architetto si trova da solo a dover interpretare dei desiderata molto confusi; in questo modo, egli mette al centro la sua poetica architettonica, che è più o meno di qualità a seconda di chi è, e non necessariamente l’architetto di grande fama imprime la giusta qualità poetica all’edificio sacro; qualche volta, proprio perché è famoso, è importante, rischia di prevalere col suo segno, che però è un puro tratto scultoreo e artistico. Tu vedi le commissioni: se tu chiedi a un liturgista ti dice una cosa, se chiedi a un altro liturgista te ne dice un’altra, poi il progetto va a Roma, e a seconda di chi è al servizio nazionale si trovano risposte diverse; e non c’è verso di uscire da questa palude.
Quale è secondo lei il terreno da cui si può partire per poter ricostruire un discorso sulla committenza?
Giuliano Zanchi: Sarebbe un discorso lunghissimo, e secondo me è legato a una cosa difficilissima: la cura liturgica di base. Ovvero, come si celebra concretamente; come si può riorientare il popolo cristiano a celebrare in un modo che sia coerente con la teologia per come la possiamo comprendere noi oggi. E deve essere coerente in tutto, dal modo di leggere la Bibbia fino al modo di celebrare. Ci vuole una coerenza che ora non c’è. Se non nasce da lì, tutto rimarrà sempre giustapposto. L’architettura contemporanea continuerà a fare il suo lavoro, ovvero a predisporre una scatola in cui noi entriamo con la sensazione di stare scomodi. Però, se possa succedere una cosa così, io non lo so…
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